martedì 18 novembre 2025

Dalla Scuola Siciliana a Amuri Luci di Carmen Consoli: un viaggio nella lingua che racconta la Sicilia

 


(ARS Istruzione Misterbianco) 
Un progetto interdisciplinare tra Storia, Civica, Letteratura, Geografia e Pari Opportunità

C’è un filo sottile, luminoso, che collega la Sicilia del XIII secolo ai suoni contemporanei della musica italiana. Un filo fatto di parole, di dialetti, di storia e di poesia. È lungo questo filo che si sviluppa il progetto educativo che ho portato in classe: un viaggio attraverso le radici della lingua siciliana, dalla Scuola siciliana medievale all’album Amuri Luci di Carmen Consoli. Un percorso che ha coinvolto discipline diverse — Storia, Letteratura, Geografia e Pari Opportunità — per raccontare agli studenti non solo una lingua, ma un’identità. Tutto parte alla corte di Federico II di Svevia, tra il 1230 e il 1266, dove nasce la prima scuola poetica italiana: la Scuola siciliana. Una poesia raffinata, cortese, innovativa. Così innovativa che Dante la riconoscerà come fondamento della tradizione italiana. È qui che il dialetto, per la prima volta nella storia letteraria della penisola, diventa lingua di poesia colta. Per rendere il percorso più vicino agli studenti, ho portato in classe l’ultimo album di Carmen Consoli, Amuri Luci, un’opera che restituisce al siciliano tutta la sua potenza sonora, emotiva e culturale.

Ogni brano è una finestra su epoche diverse: - Qual sete voi? si collega alla poesia medievale di Nina da Messina. - Mamma tedesca e Parru cu tia dialogano con le parole del poeta Ignazio Buttitta. - La terra di Hamdis (cantata in coppia con Mahmood) mette in scena l’esilio del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis.

Altri brani intrecciano latino, greco, mito e memoria moderna. L’album diventa così un laboratorio linguistico, storico e poetico. Durante il progetto è emerso un aspetto che merita attenzione: i pregiudizi ancora oggi diffusi sul dialetto siciliano. Un’allieva, con molta sincerità, mi ha detto: > “Io il siciliano non lo parlo. I miei genitori me lo vietano.” Un’affermazione che racconta un fenomeno silenzioso ma diffuso: l’idea che il dialetto sia sinonimo di poca istruzione, scadente qualità linguistica, arretratezza. Un’idea che affonda le sue radici in decenni di stigmatizzazione culturale. Eppure, la storia ci dice l’esatto contrario: il siciliano è la prima lingua poetica d’Italia, lingua colta, lingua d’arte, lingua che ha influenzato Dante.

Recuperare questa consapevolezza significa contrastare questi pregiudizi e restituire al dialetto la dignità che merita. Per molti studenti, questo percorso è stato la prima occasione per vedere la propria lingua familiare trattata con rispetto, competenza e valore culturale. Il lavoro in classe ha intrecciato: ( Letteratura) Dalla lirica cortese medievale ai poeti arabo-siciliani, fino a Buttitta e alle poetesse del Novecento. ( Storia ed educazione civica) Sicilia come terra di dominazioni e scambi: le culture che l’hanno attraversata rivivono nelle canzoni. (Geografia) La posizione della Sicilia nel Mediterraneo spiega la ricchezza linguistica dell’isola: rotte, incontri, migrazioni. (Pari Opportunità) Valorizzazione delle voci femminili escluse dalla tradizione ufficiale (Nina da Messina, Graziosa Casella) e riconoscimento del dialetto come forma legittima di identità culturale.

Questo progetto mostra agli studenti che le lingue non sono tutte uguali nella percezione sociale, ma lo sono nel loro valore culturale ed espressivo.
Capire che il siciliano — e qualunque dialetto — non è “scadente”, ma profondamente ricco, significa aprire la strada a una nuova consapevolezza:
la diversità linguistica è una ricchezza, non un limite.
In definitiva un viaggio che restituisce al siciliano la sua dignità storica e poetica, unendo passato e presente, identità e musica, cultura e consapevolezza.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

giovedì 13 novembre 2025

Perché rinnovare la carta d’identità se la mia identità non cambia?

 


Sono assolutamente favorevole allo stop al rinnovo della carta d’identità per gli over 70. È una misura di buon senso: evita burocrazia inutile e riconosce che, a una certa età, la persona resta ben riconoscibile anche senza aggiornare un documento ogni dieci anni.
Ma allora mi chiedo: perché limitarla solo a chi ha superato una soglia anagrafica?
La mia identità resta la stessa, a meno che non decida io stesso di modificarla — nel nome, nel genere, o in altri elementi che fanno parte della mia autodeterminazione. Ma in assenza di cambiamenti volontari, perché lo Stato mi obbliga a riaffermare, a intervalli regolari, che sono ancora io?
La carta d’identità non è una patente. Non certifica abilità o requisiti soggetti a variazioni nel tempo, ma un fatto stabile: chi sono.
E se la mia identità anagrafica non cambia, il rinnovo non ha senso. È una formalità che serve più al sistema che al cittadino, più alla macchina amministrativa che alla realtà.
Abolire del tutto il rinnovo — mantenendo, certo, la possibilità di aggiornarla su richiesta o in caso di variazioni effettive — sarebbe un passo verso una burocrazia più intelligente, più digitale e più rispettosa del principio di identità personale.
In fondo, io sono io fin dalla nascita: non serve un timbro nuovo ogni dieci anni per ricordarlo.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

lunedì 10 novembre 2025

Curatevi Voi

 


Dopo l’ultima puntata de Le Iene andata in onda ieri sera su Italia 1, con l’inchiesta sul dramma dell’omofobia in Italia, sento il bisogno di rispondere ad alcune affermazioni vergognose pronunciate da diversi sacerdoti cattolici. Un inviato della trasmissione ha finto di confessarsi da alcuni preti dichiarando la propria omosessualità. Le risposte? Un campionario di ignoranza e pregiudizio:

“Dovete farvi curare.” “Andate da un dottore a farvi fare esami del sangue e degli ormoni.” “È come scoprire una malattia grave.” “Il matrimonio gay è una degenerazione.”

Bene, allora diciamolo chiaramente: curatevi voi. Curatevi voi dalla repressione sessuale che, invece di generare amore e rispetto, ha prodotto mostri e tragedie. Curatevi voi da quella patologia morale che porta troppi ministri della vostra istituzione ad abusare di minori indifesi mentre predicate la “famiglia tradizionale” dalla sacrestia. Curatevi voi da quell’omofobia tossica e interiorizzata che vi impedisce di guardare negli occhi chi vive alla luce del sole ciò che voi non avete mai avuto il coraggio di vivere nemmeno al buio. Curatevi voi da quell’oscurantismo che da secoli sparge dolore, vergogna e sensi di colpa invece che compassione e umanità. Siete voi a dover guarire dal rancore e dalla frustrazione per aver perso il potere sociale che un tempo vi garantiva immunità morale. Oggi, semplicemente, non vi ascolta più nessuno. Continuate pure su questa linea: non solo non fermerete l’emorragia di fedeli già in corso… ma ne decreterete il funerale. Mentre molte chiese protestanti evolvono, includono, riflettono e accolgono, voi restate inchiodati a tesi antiscientifiche e deleterie che smentiscono perfino il Vangelo che dite di rappresentare. Grazie a Le Iene e a Nina Palmieri per aver tolto la maschera all’ipocrisia cattolica di certi “generali della morale” che diventano omofobi a comando, solo per convenienza e per marketing ecclesiastico.
©️ Cristian A. Porcino Ferrara

sabato 8 novembre 2025

“Frankenstein: Del Toro non supera Branagh (né Shelley)”

 


Chi si entusiasma con facilità di fronte al Frankenstein di Guillermo Del Toro probabilmente non ha mai letto il romanzo di Mary Shelley (1818) né visto l’adattamento di Kenneth Branagh del 1994. Il film di Branagh resta, a mio avviso, la trasposizione più fedele e capace di restituire la potenza immaginifica e tematica dell’opera originale. Il regista-attore dosa ogni ingrediente con equilibrio: è un film dinamico, evocativo e sorprendentemente moderno nella messa in scena. Branagh è credibile nei panni di Victor Frankenstein e la Creatura interpretata da Robert De Niro lascia un segno profondo; la partitura musicale di Patrick Doyle impreziosisce ogni sequenza, amplificandone l’intensità emotiva.



Il Frankenstein di Del Toro, al contrario, sembra sfiorare soltanto la complessità semantica tracciata da Shelley: dall’interrogativo teologico a quello filosofico, dal rapporto con la scienza alla riflessione sui limiti dell’etica medica. La messa in scena è elegante e gli attori sono di grande livello — Jacob Elordi e Oscar Isaac in particolare — ma qualcosa non convince. La distanza dal romanzo è così marcata da farne più un’opera “liberamente ispirata” che una rilettura, e questa scelta, per me, ne attenua l’impatto.


Detesto i paragoni fini a sé stessi e non mi aspettavo certo l’erede di Boris Karloff; tuttavia, se si decide di riportare sullo schermo un mito cinematografico e letterario come Frankenstein, bisognerebbe avvertire l’urgenza di aggiungere un tassello, un nuovo sguardo, un elemento che mancava. Qui, purtroppo, non percepisco un reale contributo rispetto ai precedenti: alcuni spunti ci sono, ma restano accennati e non sviluppati.
Permangono immagini potenti e momenti suggestivi, ma non abbastanza — per me — da desiderare una seconda visione a breve. In definitiva: troppa estetica, poca elettricità. Un Frankenstein che non prende vita.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

domenica 2 novembre 2025

Il circo dei bestseller: chi decide davvero cosa leggiamo?

 


Viviamo in un’epoca in cui i libri non si scoprono: si consumano. Le librerie non sembrano più templi di curiosità, ma supermercati culturali in cui i titoli “imperdibili” sono esposti come prodotti in offerta speciale, scelti più dal marketing che dal lettore.
Eppure, non molto tempo fa, la lettura era un atto di ricerca quasi intimo: si frugava tra gli scaffali, si seguiva l’istinto, ci si lasciava sorprendere dal caso o dal destino. Oggi, invece, ciò che leggiamo ci viene messo davanti, spinto, quasi imposto. La promessa della letteratura come esperienza rivelatrice si è annacquata in una giostra scintillante di bestseller tutti simili tra loro.
Non è nostalgia: è un campanello d’allarme. La domanda è scomoda ma necessaria: chi sta davvero decidendo cosa leggiamo?
Il paradosso della letteratura contemporanea è stridente. A cosa servono l'enorme sforzo e l'ingegno degli autori, che si impegnano in ogni dove con presentazioni, firmacopie e maratone promozionali? A nulla, sembrerebbe, se poi in metro, in aeroporto e su ogni vetrina leggiamo sempre i soliti nomi di grido, le facce note, i titoli da classifica (in Italia il 5% dei titoli pubblicati genera circa il 70% del fatturato librario annuale – dati AIE). È un gioco che non vale la candela e per questo motivo ho smesso di presentare i miei libri in giro per l'Italia.
Il mercato editoriale, infatti, sembra essere guidato da logiche che poco hanno a che fare con la qualità o la risonanza emotiva dell’opera. Ci troviamo di fronte alla fabbrica dei bestseller, libri creati a tavolino per vendere copie e capitalizzare su formule già collaudate. L’investimento di marketing si concentra su una ristretta cerchia di titoli sicuri (solo il 2–3% dei libri pubblicati riceve un vero budget promozionale), assicurando la loro onnipresenza e rendendo il successo una profezia auto-realizzante, a prescindere dal loro effettivo spessore.
Questa dinamica non risparmia nemmeno i talenti più illustri. Assistiamo al triste spettacolo di autori da un passato glorioso costretti a produrre ad libitum sempre la stessa solfa, quel copione rassicurante e familiare tanto gradito al vasto pubblico. Diventano, loro malgrado, piccole scimmiette che si esibiscono in questo circo, sfruttate fino all'esaurimento del loro autentico estro creativo. Il meccanismo editoriale li costringe a riproporre formule stanche, non per ispirazione, ma per obbligo contrattuale (secondo interviste editoriali, agli autori affermati viene spesso richiesto di mantenere lo “stile che vende” per ragioni commerciali), garantendo così un flusso costante di prodotto noto e vendibile.
È qui che si manifesta la vera tirannia: quella del marketing e della sua implacabile onnipresenza. A cosa serve scrivere e pubblicare un libro se poi il pubblico di massa acquisterà solo quello che le strategie delle case editrici decidono di pompare? (Una semplice posizione in vetrina o sul tavolo centrale di una libreria può aumentare le vendite fino al 600% rispetto a uno scaffale normale – dati di mercato librario).
Il meccanismo è chiaro, e come ebbe a dire lo scrittore Aldo Busi: “I best-seller sono spesso scritti malissimo e tradotti peggio, e sono pieni di luoghi comuni. Il best-seller è il vero segno che non c'è più un'editoria di cultura, ma un'editoria di commercio.”
La citazione è chirurgica: il best-seller non è un segno di qualità letteraria, ma l'evidenza di un successo commerciale imposto (il 62% dei lettori europei considera i bestseller ‘più commerciali che qualitativi’ – sondaggio YouGov). Questo trasforma il lettore da cercatore curioso a semplice consumatore indotto. L'acquisto non è più il frutto di una scoperta o di un passaparola sincero, ma la risposta all’onnipresente bombardamento mediatico. Si compra ciò che si ritiene familiare, l’iper-pubblicizzato, ciò che appare su ogni schermo e in ogni scaffale principale.
Se questo è il panorama, il valore del libro come espressione artistica rischia di affogare sotto il peso del brand e del budget. In questo sistema, la vera letteratura è condannata a rimanere sommersa e marginalizzata (oltre il 50% dei libri pubblicati in Italia vende meno di 100 copie). Eppure, esiste anche un’altra faccia, meno visibile ma resistente: quella delle case editrici indipendenti, che oggi in Italia sono più di 5.000 e che spesso scoprono autori ignorati dai grandi gruppi, dimostrando che una via alternativa è ancora possibile.
La letteratura non è morta: è stata messa nell’angolo. Attende il lettore disposto a disobbedire alla luce artificiale della vetrina per inoltrarsi dove la mano del marketing non arriva. Forse il vero atto rivoluzionario, oggi, non è scrivere, ma scegliere cosa leggere senza farsi scegliere dal mercato.
La prossima opera capace di cambiarci la vita potrebbe non trovarsi in libreria — e non perché non meriti spazio, ma perché nessuno ha pagato per mettercela. Ci sono libri meravigliosi che respirano altrove: nei cataloghi di editori indipendenti, nelle fiere della piccola editoria, in vendita direttamente dagli autori, consigliati da comunità di lettori, o nascosti nelle pieghe più sincere del web.
Forse la vera letteratura sopravvive proprio lì, lontana dal frastuono.
La domanda non è se esista ancora: la domanda è se abbiamo ancora il coraggio di andarla a cercare. E se l'editoria non rispetta l'autore, la risposta è chiara: lo scandalo è chiedere un'esborso economico all'autore con la scusa dell'acquisto copie. Centomila volte meglio un'auto pubblicazione onesta che una finta copia pubblicata su commissione.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

sabato 1 novembre 2025

"Dracula non muore mai. Storia vera di un vampiro per caso" di Syusy Blady


 

(Syusy Blady, "Dracula non muore mai. Storia vera di un vampiro per caso", Mondadori, pp.177, € 18,50)

Nel suo nuovo libro, Dracula non muore mai. Storia vera di un vampiro per caso, Syusy Blady affronta con spirito indagatore e curiosità intellettuale una delle figure più enigmatiche della storia e della letteratura: Vlad III di Valacchia, il crudele principe noto come “l’Impalatore”, che nei secoli si è trasformato nell’archetipo del vampiro immortale creato da Bram Stoker. Blady costruisce un testo che è insieme saggio, racconto di viaggio e riflessione personale. Dalla Romania ai Balcani, dalle cronache medievali ai luoghi leggendari, l’autrice segue le tracce di un personaggio che, più che appartenere al passato, sembra resistere al tempo. La sua indagine non si limita a distinguere la realtà storica dalla fantasia letteraria: al contrario, cerca di comprendere come il mito stesso sia diventato una forma di verità. Devo ammettere che, come i protagonisti di questo viaggio, anch’io condivido la fascinazione per questa figura ambigua, sospesa tra il mostruoso e l’eroico. Come l’autrice, quest’estate sono andato alla ricerca della vera tomba di Vlad e sono rimasto affascinato dalla Chiesa di Santa Maria la Nova. Il complesso racchiude al suo interno un mistero che spinge il visitatore non solo a porsi delle domande, ma a provare brividi lungo la schiena durante la visita.




La domanda che attraversa il libro — chi era davvero Vlad l’Impalatore? — si trasforma progressivamente in un interrogativo più profondo: perché continuiamo ad aver bisogno di lui, del suo mito, della sua ombra?
Syusy Blady riesce a dare voce a questa ambivalenza con uno stile vivace e accessibile, che unisce competenza storica e gusto narrativo. Il tono rimane sempre ironico, curioso, mai pedante: la ricerca diventa racconto, la scoperta si intreccia con la riflessione.
Dal punto di vista critico, si potrebbe osservare che la brevità del volume (poco meno di duecento pagine) non consente un approfondimento accademico delle fonti né un’analisi storica sistematica. Tuttavia, questo limite diventa anche la sua forza: il libro non vuole essere un trattato, ma un invito alla meraviglia e all’indagine.
Non è facile raccontare la storia di chi sembra essere morto due volte, ma è più vivo che mai nell’immaginario collettivo.
In un panorama editoriale spesso appiattito su narrazioni standard, Dracula non muore mai si distingue per la capacità di fondere divulgazione e introspezione, restituendo al lettore un Dracula “vero” e al tempo stesso universale. Un viaggio dentro la storia, ma anche dentro le paure e i desideri che da secoli alimentano il mito del vampiro.

© Cristian A. Porcino Ferrara

giovedì 30 ottobre 2025

"111 luoghi di Cagliari che devi proprio scoprire" di Sergio Benoni

 


("111 luoghi di Cagliari che devi proprio scoprire" di Sergio Benoni, Emons: Edizioni, pp. 239, € 16,95)

Frequento Cagliari da qualche anno, tanto da considerarla ormai una seconda casa. Qui vive e lavora la persona che amo, e forse anche per questo sentivo il bisogno di conoscere questa città più a fondo, di comprenderne la storia, i volti, i profumi e le atmosfere che la rendono unica. Il libro di Sergio Benoni è stato per me una guida preziosa e, allo stesso tempo, un viaggio emozionante tra le pieghe più autentiche della città. Non si tratta solo di un elenco di luoghi da visitare, ma di un mosaico di storie, curiosità e dettagli che rivelano l’anima vera di Cagliari. Benoni racconta con passione i quartieri e le loro identità: gli odori e i sapori della Marina, il fascino elegante del Bastione di Saint Remy, il mistero di Santa Gilla, la luce incantata del Poetto, fino ai luoghi più insoliti e silenziosi come il cimitero monumentale di Bonaria. Ogni pagina svela un tassello nuovo, invitando il lettore a guardare la città con occhi diversi, più attenti e più innamorati. Le fotografie di Daniela Zedda completano perfettamente il testo: immagini poetiche, capaci di restituire la luce e il carattere di Cagliari con uno sguardo intimo e rispettoso. In definitiva, 111 luoghi di Cagliari che devi proprio scoprire è molto più di una guida turistica: è un atto d’amore verso una città complessa e affascinante, che merita di essere conosciuta non solo per la sua bellezza evidente, ma per le mille storie che custodisce dietro ogni angolo.
©️ Cristian A. Porcino Ferrara

martedì 28 ottobre 2025

A Pier Paolo, il mio cattivo maestro. Cinquant’anni dopo, le sue parole bruciano ancora

 


Caro Pier Paolo,
sono trascorsi cinquant’anni dal tuo barbaro assassinio. Ci sono voluti cinquant’anni e la tua morte violenta perché si riconoscesse la forza della tua denuncia sociale. La nomenclatura umana da te tracciata all'epoca fu osteggiata da ogni parte politica. Rifiutato e considerato un reietto — un paria molto amato all’estero, ma mal visto in patria.
Adesso ogni partito politico ti tira per la giacchetta per portarti dalla propria parte, e mi fa sorridere vederti citato da chi, un tempo, ti additava come il mostro da silenziare. Dopo cinquant’anni sei entrato nei programmi scolastici e sei diventato perfino traccia dell’esame di maturità.
Col senno di poi, si sono accorti che la tua opera era profetica, e che la tua visione — allora definita pessimista e nefasta — è diventata la nostra realtà.
Eppure,  ai tempi del liceo, venni umiliato e deriso da un docente che ti vedeva come un untore: tu, il diverso, colui che rischiava di compromettere la supposta normalità a cui ogni maschio doveva aspirare.
Ti scelsi con consapevolezza come “cattivo maestro” e ti portai a scuola.
Mi chiedo spesso cosa avresti pensato di un’epoca in cui il linguaggio è usato come arma e chi possiede il potere lo impiega per manipolare la verità. [...]
Oggi continuo a leggerti, a interrogarmi, a cercare nelle tue parole e nelle tue immagini quella libertà che ancora ci spaventa.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

giovedì 23 ottobre 2025

Il Concilio II, la luce e le catene

 


Nella giornata di ieri, durante una lezione di Storia, ho parlato alle mie allieve del Concilio Vaticano II. Mentre ne illustravo il significato storico, mi hanno rivolto domande che mi hanno profondamente colpito:
«Come può un evento religioso riguardare tutti?»
«In che modo il cattolicesimo influenza ancora oggi la vita dei laici?»
Domande sincere, disarmanti, che mi hanno spinto a guardarmi dentro.
Ricordo che, da ragazzo, leggevo con fervore ogni documento ufficiale del Papa. Non so bene perché lo facessi; forse, in quelle parole solenni, cercavo una legittimazione alla mia esistenza. Chi ha letto il mio libro Sulle tracce dell’altrove conosce quella mia antica inquietudine: un bisogno di approvazione che non trovava mai risposta.
Crescere, per me, ha significato liberarmi da un senso di colpa che la religione aveva inciso in profondità. Non è stato facile, ma alla fine ci sono riuscito.
Come il prigioniero del mito di Platone, ho visto la luce e ho spezzato le catene.
In quel chiarore, ho intravisto uno spiraglio nelle parole di Papa Francesco – un’eco di universalità simile a quella della Pacem in terris di Giovanni XXIII. In quei rari momenti, la voce della Chiesa sembrava rivolgersi a ogni essere umano, non solo ai credenti. Ho sempre desiderato che un pontefice spezzasse le catene della propria “caverna” fatta di dogmi e divieti, dirigendosi con coraggio verso la luce. Ma so che è, e probabilmente resterà, un’utopia.
La Chiesa dice di voler parlare all’umanità di oggi, ma resta ferma nelle sue posizioni, spesso sconfessate dalla razionalità e dallo spirito scientifico. I suoi portavoce promettono di aggiornarsi, di rompere con la tradizione millenaria che la contraddistingue; in realtà, però, compiono solo piccoli e timidi passi.
La Chiesa non accetta il cambiamento e preferisce restare ai margini della società, senza incidere veramente.
E così la società cambia, evolve, e costringe il Vaticano ad adeguarsi a un contesto che ormai lo rigetta perché percepito come fuori tempo.
Da filosofo e da non credente, continuo a percepire l’invadenza della religione nella vita quotidiana. Ogni volta che la fede tenta di imporsi come regola comune, sento il dovere di alzare le barricate — non per ribellione sterile, ma per difendere la libertà di ciascuno. Nessuno dovrebbe vivere schiacciato da un credo che pretende di definire la misura dell’esistenza.
Il Concilio II si proponeva di parlare a tutti, ma oggi la Chiesa, a differenza del protestantesimo, sembra rivolgersi esclusivamente ai fedeli, ignorando l’emorragia di cattolici in tutto il mondo.
Forse, come sosteneva Nietzsche, «le persone non accettano la verità perché non vogliono che la loro illusione venga distrutta».

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

lunedì 20 ottobre 2025

Quando la gente non capisce, fabbrica scaffali!


 

Pier Paolo Pasolini diceva: “Quando la gente non capisce, fabbrica scaffali.
E in effetti, aveva ragione.
Capire è un esercizio faticoso. Richiede ascolto, empatia, tempo — e soprattutto la disponibilità a mettere in discussione sé stessi.
Giudicare, invece, è un gesto istintivo, quasi consolatorio: non richiede alcuna fatica e, sui social, “rende” anche di più.
Viviamo in un’epoca in cui l’opinione è diventata moneta di scambio e il pensiero critico un lusso per pochi. Si reagisce, si etichetta, si scomunica: tutto in nome di un’inconsapevole ansia di appartenenza.
Vai a spiegare, allora, ai professionisti del nulla — i de-pensanti di mestiere — che il “Gender” e la “cultura Woke” non esistono come spauracchi ideologici, ma come caricature costruite per alimentare paura e clic.
Heidegger diceva: “Il nulla nulleggia.
E oggi quel nulla prende forma nel linguaggio dell’odio, somministrato quotidianamente sotto forma di pregiudizio, sarcasmo e violenza verbale.
Un nulla che parla tanto, ma non dice nulla.



E intanto, uccide la possibilità stessa di capire. Ben diceva Umberto Eco quando sosteneva: "Avere un nemico è cruciale per definire l'identità di un gruppo, misurare il proprio sistema di valori, dimostrare il proprio valore nell'affrontarlo e rafforzare la coesione sociale. Quando un nemico reale manca, viene costruito per soddisfare questa esigenza".
E così, mentre siamo impegnati a costruire il nemico, gli scaffali si riempiono, uccidendo la possibilità stessa di capire.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

sabato 18 ottobre 2025

Vietare l’educazione sessuo-affettiva è un fallimento della scuola

 


Vietare per legge l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole medie rappresenta un fallimento profondo del nostro sistema educativo. È quanto prevede il recente decreto discusso in Parlamento: una scelta che rinuncia al compito più alto della scuola — formare cittadini consapevoli, capaci di comprendere sé stessi e gli altri.
Non è la sessualità in sé a spaventare, ma la possibilità che le nuove generazioni crescano più libere, consapevoli e felici di quanto non siano stati gli adulti che oggi le educano e le governano. Perché adulti sereni e autonomi difficilmente si lasciano manipolare da chi alimenta paura e semplificazioni.
Da insegnanti, vediamo ogni giorno il disorientamento dei ragazzi, immersi in un mondo ipersessualizzato che offre immagini e modelli senza contesto. I loro corpi cambiano, ma mancano le parole per capirli. Non sanno ancora chi sono, e faticano a distinguere ciò che desiderano da ciò che il mondo adulto si aspetta da loro.
L’educazione sessuo-affettiva non mira a spiegare il Kamasutra, ma a fornire un linguaggio e un contesto per comprendere la realtà emotiva e corporea che accompagna la crescita. Come ricorda lo psicologo Alberto Pellai, “non parlare di affettività e sessualità non significa proteggerli, ma lasciarli soli” in una società che li espone precocemente a messaggi distorti.
La psicoterapeuta Stefania Andreoli aggiunge che questo tipo di educazione non mina i valori familiari, ma li sostiene, perché “la conoscenza di sé è la base della libertà e della responsabilità”.
Negare questo spazio di riflessione spinge gli adolescenti verso internet e la pornografia online, con conseguenze profonde sulla percezione di sé e dell’altro. Ma il danno più grave è simbolico: rinunciare a parlare significa rinunciare a pensare. Come ricorda Umberto Galimberti, “vietare di pensare o di parlare di ciò che è naturale significa negare la possibilità stessa di un’etica”, perché l’etica nasce dal confronto consapevole con la nostra dimensione corporea e affettiva.
Sottrarre ai ragazzi l’opportunità di nominare ciò che vivono equivale a condannarli al silenzio, e il silenzio genera vergogna, paura, dipendenza da chi promette risposte facili. Se la scuola italiana avesse investito, con la stessa convinzione riservata all’insegnamento della religione, in un’educazione all’affettività e alla sessualità, oggi forse avremmo cittadini più empatici e meno soli.
L’educazione sessuo-affettiva non è un pericolo: è un atto di fiducia. Nella libertà, nel pensiero critico, e nella possibilità che i nostri ragazzi diventino adulti migliori di noi.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

giovedì 16 ottobre 2025

L’amore rimosso – Parte III: i cartoni animati

 




La mia generazione è cresciuta dentro un’educazione sentimentale che ci ha insegnato il valore dell'invisibilità.
Candy Candy amava Terence, Lady Oscar amava André, Braccio di Ferro amava Olivia, Mirko e Licia, He-Man e Teela.
Ovunque lo stesso copione: un lui, una lei, un destino da compiere.
L’amore, quello vero, non aveva alternative.
Noi, non esistevamo nemmeno come possibilità dell’immaginazione.
Non serviva la censura esplicita: bastava l’assenza.
La fantasia, che avrebbe dovuto essere il luogo del possibile, è diventata il recinto dell’ovvio.


Nel mondo colorato dei cartoni, l’eterosessualità è stata travestita da norma.
Tutto il resto, semplicemente, non era raffigurabile, quindi rappresentabile.
E quando qualcosa di diverso si affacciava, veniva subito corretto, tradotto, addomesticato.
Sailor Uranus e Sailor Neptune, due donne che si amavano, divennero “cugine” nella versione italiana. Per non parlare di episodi di Lady Oscar censurati per non suscitare domande.
La tenerezza trasformata in parentela, l’amore in legame di sangue: un’operazione chirurgica dell’anima.
Così la purezza del bambino non veniva “contaminata”, e noi continuavamo a crescere senza sapere che anche il nostro modo d’amare poteva avere diritto di parola.
Ma il bambino impara presto.
Capisce che per essere accettato deve amare come gli viene mostrato. Non sono previste deviazioni dalla tabella di marcia. Un bambino capisce che il bacio tra due uomini o due donne non è per lui, che appartiene a un linguaggio proibito. Un sentiero da non percorrere per non essere respinto.
E quando la fantasia stessa ti esclude, la realtà diventa ancora più dura.
Non è solo una questione di rappresentazione: è una questione di esistenza.
Perché l’immaginario forma la tua persona.
Ciò che non è raccontato, lentamente smette di essere pensabile.
E se non sei pensabile, sei colpevole, forse, di esistere.


Bisognerebbe aprire una riflessione su He-Man che rappresentava una figura eroica dei cartoni animati così intrisa di estetica queer da sfiorare la caricatura della mascolinità stessa. Adam era l’emblema di un machismo esibito, truzzo fino al midollo che definiva l’uomo come colui che deve dominare e imporsi.
Oggi fortunatamente qualcuno prova a spezzare quella continuità.
Nei nuovi cartoni appaiono gesti diversi: una principessa che ama un’altra principessa (She-Ra and the Princesses of Power), due gemme che si uniscono in un abbraccio amoroso (Steven Universe), un giovane che non deve salvare una donna per legittimarsi come eroe (Strange World).
Segnali fragili, ma importanti.
Eppure, ogni volta che l’amore queer si affaccia sullo schermo, scatta la difesa morale, la paura, la parola che sentiamo da sempre: “ideologia”.
Come se il nostro amore fosse un’invenzione e non una presenza antica quanto il mondo.
Come se la cosiddetta normalità potesse essere difesa solo attraverso la rimozione.
Se si parla di ideologia, non è chiaro perché non debba applicarsi a un ragionamento di tipo generale. Siamo nati e cresciuti in contesti familiari tradizionali, ma ciò non ha determinato il nostro orientamento sessuale. Questo dimostra che le influenze ideologiche esterne non sono determinanti, eppure la nostra attuale cultura tende a eludere la realtà dei fatti per concentrarsi su falsità e narrative distorte.
Io credo che la vera ideologia sia l’eteronormatività travestita da innocenza infantile.
Quel meccanismo per cui tutto ciò che non rientra nel copione del principe e della principessa viene dichiarato nocivo.
Come se la purezza dei bambini consistesse nell’ignorare la complessità dell’amore.
Ma i bambini sanno.
Sanno riconoscere la dolcezza, la paura, il sentimento, anche se non hanno ancora le parole per dirlo.
È il mondo adulto che censura, non per proteggerli, ma per proteggere se stesso dalla verità:
che l’amore non ha sinonimi.
E allora sì, anche nei cartoni animati la rimozione è una forma di violenza silenziosa.
Non ci uccide, ma ci cancella.
Ci lascia vivi, ma senza specchio.


L’infanzia, quella vera, dovrebbe essere il luogo del possibile.
E invece, per molti di noi, è stata solo la prima lezione di invisibilità. L’amore rimosso non è solo assenza di rappresentazione: è memoria interrotta.
Ogni bacio censurato, ogni relazione taciuta, è una ferita nel modo in cui impariamo ad amare.
Eppure, da quelle assenze nasce la nostra voce.
Noi, i rimossi, i dimenticati, gli invisibili dei cartoni, abbiamo imparato a leggere anche nel silenzio: a trovare negli sguardi, nei gesti sospesi, nelle ombre dei personaggi, un frammento di verità.
Forse la nostra infanzia è stata rubata, ma la nostra lettura del mondo — proprio perché ferita — è diventata più profonda.
E in fondo, ogni volta che un bambino oggi guarda due personaggi dello stesso sesso amarsi, senza che nessuno glielo proibisca, un piccolo pezzo di quella storia rimossa si ricompone.
Un gesto minuscolo, ma rivoluzionario.
Perché l’amore, quando smette di nascondersi, torna finalmente a essere ciò che è sempre stato: umano.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

venerdì 10 ottobre 2025

L’amore rimosso – Parte II. La letteratura eteronormativa e le sue omissioni

 


C’è qualcosa di profondamente allarmante nel modo in cui la scuola continua a raccontarci la letteratura.
Ogni autore sembra avere la sua “bella morosa” cui dedicare versi e tormenti, come se la sensibilità poetica potesse nascere solo dall’amore per una donna. La norma si traveste da tradizione e la tradizione da verità. Ma se sei maschio e i tuoi sentimenti o desideri non seguono la direzione prevista, sembri fuori dal racconto — e dunque fuori dal mondo.
Nei manuali tutto scorre liscio, rassicurante, come se la storia delle lettere fosse un lungo elogio dell’eterosessualità. Si studiano i poeti innamorati di figure femminili idealizzate, mentre i legami che non rientrano in quella narrazione vengono archiviati nel silenzio. Così accade per Leopardi: si parla della sua delusione per Fanny Targioni Tozzetti, ma non del rapporto profondo e autentico con Antonio Ranieri.



La scuola trasmette la metà di una verità e la spaccia per intera.
E non è solo Leopardi. Nei manuali, l’unico autore italiano dichiaratamente omosessuale sembra essere Pasolini, come se il suo coraggio avesse esaurito da solo l’intera questione. Ma la realtà letteraria è molto più complessa e ricca. Umberto Saba, per esempio, affida al romanzo postumo Ernesto la confessione di un desiderio che per tutta la vita ha dovuto tacere: il rapporto tra il giovane protagonista e un uomo più grande diventa un momento di rivelazione e di conflitto, tenero e doloroso insieme.




Anche Giorgio Bassani, ne Gli occhiali d’oro, racconta con grande finezza la solitudine di un medico omosessuale nella Ferrara fascista, emblema di un’umanità esclusa e perseguitata.
E poi c’è Aldo Busi, autore di un capolavoro assoluto come Seminario sulla gioventù: un romanzo di formazione audace, ironico, scritto divinamente, che affronta il tema dell’identità e dell’accettazione di sé con una lucidità che la scuola continua a ignorare. Eppure un testo come questo, se proposto agli studenti, aiuterebbe a comprendere che la letteratura non serve a confermare le norme, ma a metterle in discussione.
Sono storie e voci che la scuola raramente nomina, come se non fossero parte della nostra identità culturale. E invece lo sono, eccome: fanno parte di quella verità intera che abbiamo smesso di raccontare.
Questo silenzio non è casuale: è una strategia culturale. È il modo con cui si stabilisce che solo un certo tipo di amore è degno di parola, di memoria, di storia. Tutto il resto — i corpi, i desideri, le differenze — viene espulso come un errore. La letteratura diventa così un meccanismo di esclusione, non di conoscenza.
Michela Murgia, in un’intervista che non smetto di citare, ricordava che chi non vive la discriminazione spesso non ne comprende la necessità di superarla. Chi detiene il privilegio si convince che il mondo che vede sia l’unico possibile, e quando gli si mostra la marginalizzazione altrui, risponde che “si esagera”. Ma negare l’esperienza dell’altro è il modo più efficace per continuare a esercitare quel privilegio.
Nel mio libro Sulle tracce dell’altrove ho cercato di raccontare proprio questo: il disagio silenzioso di chi cresce tra i banchi di scuola senza mai trovare una storia che gli assomigli.
Quando la realtà omosessuale viene ignorata, non è solo una dimenticanza: è un messaggio implicito. È come dire “tu non esisti”, oppure peggio, “non devi esistere”. E allora l’aula, che dovrebbe essere un luogo di conoscenza e di libertà, diventa un laboratorio di conformismo.
Forse dovremmo domandarci non solo quali storie scegliamo di raccontare, ma perché continuiamo a raccontarne sempre le stesse.
L’amore — ogni forma d’amore — è materia universale, eppure la sua rappresentazione resta sorvegliata, normalizzata, selettiva.
E mentre si discute di educazione affettiva e di parità di genere nelle scuole, nessuno mette in discussione i manuali che perpetuano un’unica idea di desiderio.



Il punto non è “aggiungere autori gay” come si aggiunge una nota a piè di pagina. Il punto è riscrivere la narrazione stessa, liberarla dai filtri morali che ancora oggi la ingabbiano.
Riconoscere l’amore omosessuale non è una concessione né un atto politico: è restituire alla letteratura la sua interezza, la sua verità.
Perché la scuola non dovrebbe operare censure e discriminazioni, ma il diritto — e il coraggio — di amare.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara








sabato 4 ottobre 2025

Condivisione, non competizione

 



Mentre passeggiavo a Marzamemi mi ha profondamente colpito una scritta che diceva: «Non mi piace la competizione, preferisco la condivisione». In quanto insegnante, non ho mai sopportato l’idea della competizione così radicata nei nostri sistemi scolastici.
Ogni allievo è unico e merita di essere accompagnato nella scoperta dei propri talenti, senza la spada di Damocle che incombe sulle loro teste a causa di una competizione spesso inutile e deleteria. Alexander Neill, fondatore della scuola di Summerhill, ci ricorda che «l’istruzione deve adattarsi al ragazzo, non il ragazzo all’istruzione». In questo senso, la libertà di crescere rispettando i propri tempi e inclinazioni è molto più preziosa di qualsiasi confronto basato sul rendimento.
Anche Daniel Goleman sottolinea l’importanza di un approccio che vada oltre il quoziente intellettivo, valorizzando le competenze emotive e relazionali. Come sostiene nei suoi studi sull’intelligenza emotiva, «non è il più intelligente a raggiungere i risultati migliori, ma chi sa gestire le proprie emozioni e relazioni». La condivisione, l’empatia e la cooperazione diventano allora strumenti fondamentali per la crescita personale e collettiva.
Ecco perché credo che la scuola debba orientarsi non a creare competitori, ma persone consapevoli, capaci di collaborare e di esprimere al meglio la propria unicità. E in questo percorso il nostro ruolo di insegnanti è decisivo: non siamo semplici trasmettitori di nozioni, ma facilitatori di crescita, guide che accompagnano con rispetto e passione ogni allievo nel suo cammino, perché ognuno possa sentirsi valorizzato per ciò che è e non per quanto riesca a superare gli altri. In fondo, insegnare significa divertirsi nel trasmettere il sapere, senza ridurlo a un elenco di nozioni seriose. Lo ricorda bene Alessandro Barbero: «Quando racconto ritorno un bambino che giocava con i soldatini». Ed è proprio questa dimensione ludica che la scuola dovrebbe recuperare, se vuole davvero essere uno spazio di condivisione e non di competizione.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

giovedì 2 ottobre 2025

Spalle al muro: il peso nascosto della demenza

 


La demenza senile è una malattia che non isola mai una sola persona: è una frattura silenziosa che attraversa le famiglie, un lento dissolversi che porta via chi si ammala e chi lo accompagna. Colpisce la memoria, i pensieri, l’identità stessa: noi siamo i nostri ricordi, e quando vacillano diventiamo lenti frammenti di noi stessi, fino a sembrare corpi presenti ma anime assenti.
Ho conosciuto questa realtà nel dolore di vedere mio padre scomparire giorno dopo giorno, divorato dalla malattia, fino a scoprirmi non più soltanto figlio, ma padre di mio padre. La sua fragilità ha cambiato il volto della mia vita, insegnandomi che si cresce anche così: quando il tempo non si misura più solo nei propri giorni, ma nell’intensità con cui si vive accanto a chi ti ha messo al mondo.
Eppure, troppo spesso, la società e le istituzioni trattano tutto questo con superficialità. Nei pronto soccorso i sintomi vengono minimizzati, l’ascolto è distratto, e la storia di un essere umano si riduce a una diagnosi. Renato Zero, in Spalle al muro, canta: “Vecchio, diranno che sei vecchio, con tutta quella forza che c’è in te. Vecchio, sì
con quello che hai da dire
Ma vali quattro lire, dovresti già morire
tempo non c'è ne più
Non te ne danno più...".
Parole che descrivono bene lo stigma che accompagna chi invecchia: come se la malattia potesse cancellare dignità e vita.
La psicologa Dawn Brooker ci ricorda che la cura deve essere centrata sulla persona, non solo sulla diagnosi. Dietro ogni sguardo smarrito resta sempre una storia che chiede rispetto. Anche Teepa Snow ci invita a cambiare prospettiva: la persona con demenza non ci “dà un problema”, ma “vive un problema”.
Il dolore di chi assiste è silenzioso ma profondo: stress, isolamento, rinunce lavorative, logoramento interiore. Spesso si sacrifica tempo, opportunità, etc. Dietro ogni malato c’è un essere umano da custodire, e dietro ogni persona che si prende cura di un familiare affetto da demenza c’è un cuore che resiste, pur con le spalle al muro.
Forse il compito più grande che abbiamo come società è non dimenticarlo. La dignità non deve mai essere un lusso, ma un diritto che dura fino all’ultimo respiro.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara

martedì 30 settembre 2025

Come si riconosce l'ignoranza

 




Sabato scorso, in Rai, è andata in onda una scena vergognosa: nel 2025 c’è ancora chi si chiede “come si riconosce un gay?”.

Per rispondere, soliti cliché stantii e stereotipi ridicoli, vecchi come il cucco.

La verità è semplice: non si riconosce un gay, perché non c’è nulla da riconoscere. Una persona gay è identica a una persona etero, così come un intelligente non si distingue da uno stupido guardandolo in faccia.

Cara Muccitelli, questo non è intrattenimento. È solo un modo per alimentare ignoranza e discriminazione in un Paese che avrebbe bisogno di rispetto, non di siparietti da barzelletta.

©️ Cristian A. Porcino Ferrara