
Viviamo in un’epoca in cui i libri non si scoprono: si consumano. Le librerie non sembrano più templi di curiosità, ma supermercati culturali in cui i titoli “imperdibili” sono esposti come prodotti in offerta speciale, scelti più dal marketing che dal lettore.
Eppure, non molto tempo fa, la lettura era un atto di ricerca quasi intimo: si frugava tra gli scaffali, si seguiva l’istinto, ci si lasciava sorprendere dal caso o dal destino. Oggi, invece, ciò che leggiamo ci viene messo davanti, spinto, quasi imposto. La promessa della letteratura come esperienza rivelatrice si è annacquata in una giostra scintillante di bestseller tutti simili tra loro.
Non è nostalgia: è un campanello d’allarme. La domanda è scomoda ma necessaria: chi sta davvero decidendo cosa leggiamo?
Il paradosso della letteratura contemporanea è stridente. A cosa servono l'enorme sforzo e l'ingegno degli autori, che si impegnano in ogni dove con presentazioni, firmacopie e maratone promozionali? A nulla, sembrerebbe, se poi in metro, in aeroporto e su ogni vetrina leggiamo sempre i soliti nomi di grido, le facce note, i titoli da classifica (in Italia il 5% dei titoli pubblicati genera circa il 70% del fatturato librario annuale – dati AIE). È un gioco che non vale la candela e per questo motivo ho smesso di presentare i miei libri in giro per l'Italia.
Il mercato editoriale, infatti, sembra essere guidato da logiche che poco hanno a che fare con la qualità o la risonanza emotiva dell’opera. Ci troviamo di fronte alla fabbrica dei bestseller, libri creati a tavolino per vendere copie e capitalizzare su formule già collaudate. L’investimento di marketing si concentra su una ristretta cerchia di titoli sicuri (solo il 2–3% dei libri pubblicati riceve un vero budget promozionale), assicurando la loro onnipresenza e rendendo il successo una profezia auto-realizzante, a prescindere dal loro effettivo spessore.
Questa dinamica non risparmia nemmeno i talenti più illustri. Assistiamo al triste spettacolo di autori da un passato glorioso costretti a produrre ad libitum sempre la stessa solfa, quel copione rassicurante e familiare tanto gradito al vasto pubblico. Diventano, loro malgrado, piccole scimmiette che si esibiscono in questo circo, sfruttate fino all'esaurimento del loro autentico estro creativo. Il meccanismo editoriale li costringe a riproporre formule stanche, non per ispirazione, ma per obbligo contrattuale (secondo interviste editoriali, agli autori affermati viene spesso richiesto di mantenere lo “stile che vende” per ragioni commerciali), garantendo così un flusso costante di prodotto noto e vendibile.
È qui che si manifesta la vera tirannia: quella del marketing e della sua implacabile onnipresenza. A cosa serve scrivere e pubblicare un libro se poi il pubblico di massa acquisterà solo quello che le strategie delle case editrici decidono di pompare? (Una semplice posizione in vetrina o sul tavolo centrale di una libreria può aumentare le vendite fino al 600% rispetto a uno scaffale normale – dati di mercato librario).
Il meccanismo è chiaro, e come ebbe a dire lo scrittore Aldo Busi: “I best-seller sono spesso scritti malissimo e tradotti peggio, e sono pieni di luoghi comuni. Il best-seller è il vero segno che non c'è più un'editoria di cultura, ma un'editoria di commercio.”
La citazione è chirurgica: il best-seller non è un segno di qualità letteraria, ma l'evidenza di un successo commerciale imposto (il 62% dei lettori europei considera i bestseller ‘più commerciali che qualitativi’ – sondaggio YouGov). Questo trasforma il lettore da cercatore curioso a semplice consumatore indotto. L'acquisto non è più il frutto di una scoperta o di un passaparola sincero, ma la risposta all’onnipresente bombardamento mediatico. Si compra ciò che si ritiene familiare, l’iper-pubblicizzato, ciò che appare su ogni schermo e in ogni scaffale principale.
Se questo è il panorama, il valore del libro come espressione artistica rischia di affogare sotto il peso del brand e del budget. In questo sistema, la vera letteratura è condannata a rimanere sommersa e marginalizzata (oltre il 50% dei libri pubblicati in Italia vende meno di 100 copie). Eppure, esiste anche un’altra faccia, meno visibile ma resistente: quella delle case editrici indipendenti, che oggi in Italia sono più di 5.000 e che spesso scoprono autori ignorati dai grandi gruppi, dimostrando che una via alternativa è ancora possibile.
La letteratura non è morta: è stata messa nell’angolo. Attende il lettore disposto a disobbedire alla luce artificiale della vetrina per inoltrarsi dove la mano del marketing non arriva. Forse il vero atto rivoluzionario, oggi, non è scrivere, ma scegliere cosa leggere senza farsi scegliere dal mercato.
La prossima opera capace di cambiarci la vita potrebbe non trovarsi in libreria — e non perché non meriti spazio, ma perché nessuno ha pagato per mettercela. Ci sono libri meravigliosi che respirano altrove: nei cataloghi di editori indipendenti, nelle fiere della piccola editoria, in vendita direttamente dagli autori, consigliati da comunità di lettori, o nascosti nelle pieghe più sincere del web.
Forse la vera letteratura sopravvive proprio lì, lontana dal frastuono.
La domanda non è se esista ancora: la domanda è se abbiamo ancora il coraggio di andarla a cercare. E se l'editoria non rispetta l'autore, la risposta è chiara: lo scandalo è chiedere un'esborso economico all'autore con la scusa dell'acquisto copie. Centomila volte meglio un'auto pubblicazione onesta che una finta copia pubblicata su commissione.
©️ Cristian A. Porcino Ferrara