
Chi si entusiasma con facilità di fronte al Frankenstein di Guillermo Del Toro probabilmente non ha mai letto il romanzo di Mary Shelley (1818) né visto l’adattamento di Kenneth Branagh del 1994. Il film di Branagh resta, a mio avviso, la trasposizione più fedele e capace di restituire la potenza immaginifica e tematica dell’opera originale. Il regista-attore dosa ogni ingrediente con equilibrio: è un film dinamico, evocativo e sorprendentemente moderno nella messa in scena. Branagh è credibile nei panni di Victor Frankenstein e la Creatura interpretata da Robert De Niro lascia un segno profondo; la partitura musicale di Patrick Doyle impreziosisce ogni sequenza, amplificandone l’intensità emotiva.
Il Frankenstein di Del Toro, al contrario, sembra sfiorare soltanto la complessità semantica tracciata da Shelley: dall’interrogativo teologico a quello filosofico, dal rapporto con la scienza alla riflessione sui limiti dell’etica medica. La messa in scena è elegante e gli attori sono di grande livello — Jacob Elordi e Oscar Isaac in particolare — ma qualcosa non convince. La distanza dal romanzo è così marcata da farne più un’opera “liberamente ispirata” che una rilettura, e questa scelta, per me, ne attenua l’impatto.
Detesto i paragoni fini a sé stessi e non mi aspettavo certo l’erede di Boris Karloff; tuttavia, se si decide di riportare sullo schermo un mito cinematografico e letterario come Frankenstein, bisognerebbe avvertire l’urgenza di aggiungere un tassello, un nuovo sguardo, un elemento che mancava. Qui, purtroppo, non percepisco un reale contributo rispetto ai precedenti: alcuni spunti ci sono, ma restano accennati e non sviluppati.
Permangono immagini potenti e momenti suggestivi, ma non abbastanza — per me — da desiderare una seconda visione a breve. In definitiva: troppa estetica, poca elettricità. Un Frankenstein che non prende vita.
©️ Cristian A. Porcino Ferrara