domenica 4 marzo 2012

“Un’altra vita per Shlomo. Intervista all’autore”



Il nuovo libro di Cristian Porcino “Un’altra vita” racconta la vita di Shlomo, un giovane ebreo ortodosso che dovrà fare i conti con la mentalità chiusa e bigotta dei propri genitori e della comunità in cui risiede. Una lettura entusiasmante e coraggiosa che dichiara apertamente, e senza tanti giri di parole che l’amore non ha etichette. Porcino smaschera il voyerismo di facciata che sembra tanto arrovellare i perbenisti dell’ultima ora. Il tema dell’omossessualità è affrontato dall’autore con delicatezza e con spirito filosofico. La narrazione prosegue con tanti episodi suggestivi e densi di liricità in una cornice scenografica accattivante come quella di New York City. Per saperne di più su questo e su altri lavori da lui pubblicati, ho intervistato l’autore che ha gentilmente risposto ad alcune domande.

1) Il suo primo romanzo “Un’altra vita” affronta un tema molto importante come il legame fra religione e sessualità. Perché questa scelta?

«Dunque la scelta è stata dettata dalla spiegazione forse più ovvia. Determinate religioni, se non quasi tutte, hanno mortificato l’aspetto sessuale degli esseri umani. Le loro dottrine hanno sempre incoraggiato il rapporto sessuale solamente in vista della procreazione. Così quando si è dovuto affrontare l’omosessualità, come nel caso del protagonista del romanzo, l’atteggiamneto più comune è stato quello di emarginare ed espungere dal nucleo comunitario d’appartenenza chi, con il proprio comportamento, poteva minare le solide basi tramandate nei secoli da vecchie tradizioni religiose, e superstizioni infarcite da misticismo. La scelta pertanto era, a mio parere, più che doverosa».

2) Cosa l’ha spinta a scrivere una storia come quella di Shlomo?

«La storia di Shlomo nasce diversi anni fa. Purtroppo avevo sempre rimandato l’appuntamento a data da destinarsi, fino a quando non è giunto il momento giusto per fissarla su un foglio di carta. Viviamo, ahimè, in un contesto storico dove l’omofobia appare un fattore ben radicato e mascherato dalla parola “tolleranza”. Dietro questo concetto si può annidare un atto di razzismo ben congegnato. Persino i rappresentati religiosi utilizzano spesso simili parole. Dichiarando pubblicamente di essere tolleranti allo stesso tempo prendano le dovute distanze dal problema. In altre parole è come dire “ti rispetto ma non avvicinarti. Resta al tuo posto”. Questo è un vero controsenso».

3) Perché si è affidato ancora una volta all’autopubblicazione?

«Di editori onesti e coraggiosi in giro ne vedo pochi. Quando scoprono che non sei diposto ad acquistare le copie del libro o a partecipare economicante alle spese di stampa spariscono nel nulla. Francamente non capisco chi snobba così tanto l’autopubblicazione. A dire il vero è molto più nobile investire su se stessi editandosi le opere, piuttosto che partecipare e incrementare le floride finanze di certi tipografi che si spacciano per editori. Anche come critico letterario non stabilisco mai a priori quali libri recensire o no. Prima leggo e poi mi faccio un’idea. Negli ultimi cinque anni ho letto diversi libri autopubblicati davvero interessanti che sono arrivati all’attenzione di alcuni critici grazie alla costanza dei loro autori. Quindi è giunta l’ora di togliere i paraocchi e accantonare questi sterili pregiudizi».


4) Il romanzo è ambientato a New York. Come mai questa scelta?

«Trascorro diversi periodi dell’anno a New York ed è una città a me molto cara. E poi la storia di Shlomo si sposa bene con le immagini della grande mela. Inoltre in quelle occasioni ho avuto modo di osservare da vicino le comunità ebraiche ortodosse in cui ho ambientato la prima parte del libro ».

5) In “La solitudine non va mai in vacanza” (Photocity Edition) ha trattato tematiche piuttosto delicate come le morti sul posto di lavoro, la solitudine e l’ambizione di chi punta troppo in alto come ad esempio il cardinal Thomas Wolsey personaggio storico cinquecentesco della corte dei Tudor. Perché ha puntato su problematiche più ricercate anziché ripiegare nei soliti racconti d’amore?

«Si, in effetti, me lo chiedo anch’io. A parte la battuta, penso che scrivere solamente o principalmente d’amore sia una scelta oltre che scontata, poca fantasiosa. Di solito quando non si sa cosa scrivere si progetta una classica storia d’amore, piena di tradimenti e riavvicinamenti. La letteratura ci ha fornito negli anni validi esempi di opere che sapevano coniugare il sentimento con altro. “Il dolore del giovane Werther”, ad esempio, ci parla della passione che consuma il protagonista ma anche della sua propensione a nascondersi dietro le proprie sensazioni. Nel mio libro ho affrontato diverse problematiche come le morti bianche perché credo che questo sia più importante di una storia trita e ritrita che fa rima con amoruccio e tesoruccio. Per i Tudor invece ho una vera e propria predilezione. Leggo e mi documento da diversi anni sul quel periodo storico. Thomas Wolsey pur essendo una figura di prim’ordine all’interno della corta di Enrico VIII è stato quasi dimenticato dalla storiografia contemporanea. Con il passare del tempo Wolsey è diventato una comparsa di scarso valore».

6) In uno dei racconti de “La solitudine non va mai in vacanza” lei sembra richiamare la tragica scomparsa di Yara. Si è per caso ispirato alla tragedia della piccola di Brembate?

«Sono in tanti ad avermi fatto notare questa cosa. Il caso di Yara mi ha colpito molto e in qualche modo ho tratto ispirazione dalla sua triste vicenda. Però il mio racconto parla di una ragazzina americana Alice che si fida ciecamente di un adulto che con inganno tenta di ucciderla. Di storie come quella di Yara purtroppo ce ne sono tantissime nel mondo, e quasi sempre sono tutt’oggi dei delitti tragicamente irrisolti».


7) Nel saggio “Michael Jackson un uomo oltre lo specchio” giunto già alla seconda edizione, lei fa riferimento alla personalità del daimon interiore elaborata da James Hillman. Ci spieghi meglio?

«Nella sua opera più importante “Il codice dell’anima” Hillman postula l’esistenza all’interno dei nostri corpi di una sorta di daimon interiore che ci guida verso il nostro cammino e realizzazione personale. Nel caso dell’ artista la cosa si fa ancora più interessante. Data la personalità creativa che osserviamo e ammiriamo si fa sempre più presente la scissione fra la loro vera personalità e quella della voce interiore che sul palco si manifesta a 360 gradi. Ecco analizzando la figura complessa di Michael Jackson ho messo in luce determinati aspetti».


8) Proggetti per il futuro?

«Ne ho diversi, ma non le posso dire nulla. Tutto è ancora in fase di progettazione».

Veronica Di Stefano


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