“L’Altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante” di Mario La Ferla per Nuovi Equilibri Edizioni, è un inchiesta giornalistica alla vecchia maniera; incentrata proprio sull’ interesse mostrato dalla destra nazionale ed europea nei confronti del Che. La sinistra che avrebbe dovuto omaggiarlo o ricordarlo; proprio durante il 40° anniversario della sua morte ignorò totalmente tale ricorrenza. Nel 2007 la sinistra italiana era troppo presa a risolvere le beghe di partito del governo Prodi. Nello schieramento opposto invece, qualcuno si prodigava a scrivere lettere di rimembranze e di stima al comandante Guevara. La Ferla giornalista fin troppo scomodo per via delle sue indagini sui diversi misteri e intrighi italiani e internazionali, analizza senza alcuna remora o riverenza, la storia passata e presente dei cosiddetti fascisti rossi, o giovani nazional rivoluzionari.
Ecco l’intervista da me realizzata a Mario La Ferla:
1) Come è venuto a conoscenza della passione e della stima professata dalla destra nei confronti di Ernesto Che Guevara?
« La passione della destra per il Che è di vecchia data, ormai fa parte della cronaca e della storia politica italiana del Novecento. Quindi ne sono venuto a conoscenza, come dire, in presa diretta, soprattutto svolgendo il mio lavoro di inviato all’ “Espresso” dove sono rimasto per trent’anni. Ricordo che la prima notizia dell’amore a destra per Guevara la appresi direttamente da alcuni autori del Bagaglino, il cabaret romano rigorosamente di destra, i quali erano tutti ammiratori del Che. Quando alcuni di essi furono informati della morte del guerrigliero, il 9 ottobre 1967, decisero di dovergli rendere subito un omaggio. Pierfrancesco Pingitore insieme con il maestro Dimitri Gribanovski compose un mese dopo una ballata, “Addio Che”, che venne poi cantata da Gabriella Ferri. La ballata addirittura apriva e chiudeva, al massimo volume, i comizi di Pino Rauti durante la campagna elettorale per le elezioni del 1968. Poi ci fu, appunto, il ’68. Il primo marzo di quell’anno, a Roma, a Valle Giulia, molti ragazzi di destra presero parte alle proteste che sfociarono in violenti scontri con la polizia. Fu proprio in quell’occasione, deplorata da Pier Paolo Pasolini che si schierò dalla parte dei poliziotti, figli di veri proletari, che i rappresentanti della destra radicale sbandieravano le immagini del Che. Tra la fine del ’67 e l’inizio del ’69, lo sceneggiatore Adriano Bolzoni, chiamato il “ragazzo di Salò, per la sua adesione alla Repubblica Sociale, scrisse un libro sul Che che trasformò subito in un copione per un film che fu girato nella primavera del ’68. Erano il primo libro e il primo film dedicati al Che, primi nel mondo. Poi, a Parigi, fu pubblicato il libro “Une passion pour Che Guevara”, scritto da Jean Cau, ex intellettuale di sinistra e segretario di Jean-Paul Sartre, passato poi a destra a causa di dissidi per la questione algerina. Jean Cau, nel suo libro, si rivolgeva direttamente al Che, facendone alla fine un ritratto eroico. Lo paragonò addirittura a Gesù Cristo: il libro ebbe un grande successo, non solo tra i lettori di destra. Comunque contribuì a diffondere ancora di più a destra il mito di Ernesto Guevara.
Posso aggiungere che la scintilla per il Che si era già accesa ancora prima della morte di Guevara, esattamente verso la metà degli anni 60. Lo ricorda lo scrittore e storico fiorentino Franco Cardini, celebre medievalista, allora giovane iscritto al Movimento sociale e poi alla Giovane Europa di Jean Thiriart. Addirittura il primo omaggio al Che avvenne nel 1961, a Firenze, in occasione dell’occupazione dell’università da parte del Fuan. E l’ammissione di Guevara tra le file dei giovani contestatori di destra venne ufficializzata nel giugno 1965, durante il congresso provinciale del Msi con l’uscita dei giovani amici di Cardini che nel partito ci stavano ormai stretti. Posso citare altri ricordi di casi che hanno contribuito a fare del Che il simbolo della destra movimentista, e che ho via via acquisito durante il mio lavoro di giornalista. Per esempio, la rivista “L’Orologio” di Luciano Lucci Chiarissi, poi il giornale della federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale di Salò “Azimut” e il foglio giovanile “Controcorrente”. E dopo l’ideologo Jean Thiriart, a consolidare l’ammirazione per il Che contribuirono gli scritti e i discorsi di Alain de Benoist, capofila della “Nouvelle Droite”. Comunque è stato il ’68 a rivelare l’amore per il Che, in maniera vistosa e lampante, e a confermare il culto per il guerrigliero che rappresentava il mito ideale: la figura del perdente coniugata a quella dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico. Il successo del Che presso i giovani di destra è via via aumentato grazie all’intervento di scrittori e intellettuali, non soltanto di destra (basta citare l’ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana autore di “I ragazzi del Che”), che hanno accostato Ernesto Guevara a personaggi famosi che facevano già parte dell’immaginario collettivo della destra ribelle. Per esemio: Lawrence d’Arabia, i personaggi di Salgari, Giuseppe Garibaldi, Zorro e Don Chisciotte, insomma la stirpe dei futuristi guidati da Marinetti, e poi Giovanni Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinad Céline, Ernst Junger e di Giuseppe Prezzolini.»
2) Nel suo libro lei fa riferimento all’immagine del Che comparata, subito dopo la morte, alla figura messianica e salvifica del Cristo. Da questa simbologia scaturì in America Latina la “teoria della liberazione”. Alcuni preti e teologici cattolici se ne fecero promotori; ma fu fermamente respinta da papa Giovanni Paolo II. Può spiegarci perché tale insegnamento fu decisamente combattuto dalle più alte gerarchie vaticane?
« Nonostante il richiamo ai dettami del Concilio Vaticano II, la maggior parte dei sacerdoti sudamericani che avevano dato vita al concetto di “teoria della liberazione” si era schierata apertamente e provocatoriamente a favore della lotta armata. Un anno e mezzo prima della morte del Che, il sacerdote colombiano Camilo Torres era stato ucciso in combattimento. Fin dagli anni 60 Torres aveva abbracciato la militanza politica e guerrigliera e per questo fu ritenuto “el ejemplo mas alto de la lucha cristiana y revolucionaria en America Latina”, che alla pari di Guevara sosteneva che “el deber de todo cristiano es ser revolucionario”. Nel comunicato stampa del giugno 1965, Camilo Torres spiegava le ragioni per cui aveva chiesto all’arcivescovo di Bogotà il suo esonero dagli obblighi inerenti la sua condizione di sacerdote (d’altra parte gli era già stato proibito di celebrare la messa sia in pubblico che in privato): “Ritengo che la lotta rivoluzionaria sia una lotta cristiana e sacerdotale. Solamente grazie a questa, nelle circostanze concrete della nostra patria, possiamo realizzare l’amore che gli uomini devono avere per il prossimo”. Il passaggio nella mediazione ideologica tra l’eredità di Torres e quella di Guevara fu attuato da Juan Garcìa Ellorio, argentino, cresciuto in un seminario di gesuiti. Proprio partendo dall’insegnamento del Concilio Vaticano II, Ellorio –dopo aver fondato la rivista “Cristianismo y Revoluciòn”- elaborò i piani teorico-politici e organizzativi per preparare, sulla scia di Torres, la lotta armata in Argentina. Convinto che la rivoluzione non potesse imporsi senza la “violencia armada”, dopo una serie di operazioni militari eseguite attraverso il Comando Camilo Torres e altri commandos, Ellorio morì in un misterioso attentato nel gennaio 1970. Tutto questo era più che sufficiente per mettere in allarme il Vaticano, che non poteva restare indifferente di fronte a un fenomeno di così vaste proporzioni che si stava diffondendo nell’America Latina, contro ogni fondamentale principio propagandato dal cristianesimo. E l’allarme in Vaticano diventò ancora più assillante quando nel movimento rivoluzionario iniziato da Camilo Torres erano via via confluiti sacerdoti che si ispiravano alla rivoluzione popolare del presidente argentino Juan Domingo Peròn. Questa ‘esplosiva’ confluenza di preti peronisti nel movimento dei preti ribelli fedeli all’insegnamento di Torres e di Ellorio, venne ufficializzata in documento detto di Torres e di impegno, scritto nel Natale del 1968. I preti cristiani e rivoluzionari sostenevano che “per la nostra coscienza di cristiani è giunta, con drammatica urgenza, l’ora dell’azione che dovrà essere portata a termine con l’audacia dello spirito e l’equilibrio di Dio, denunciando energicamente gli abusi e le conseguenze ingiuste delle eccessive disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli…”. Il Vaticano reagì energicamente. Di ispirazione peronista era padre Mugica, il quale ebbe un ruolo molto importante nel tentare una conciliazione tra le due posizioni: quella del Vaticano e quella dei preti rivoluzionari, insomma i metodi pacifici e il ricorso alle armi. Padre Mugica aveva dato vita all’organizzazione dei “Sacerdotes para il Tercer Mundo” schierandosi al fianco dei deboli e degli oppressi, ma allo stesso tempo sosteneva che fosse impossibile per lui cristiano aderire alla lotta armata, affermando che la violenza era incompatibile con il messaggio evangelico, e dichiarando che era disposto a dare la vita per la rivoluzione ma non a uccidere per essa. Nel maggio 1974 fu ucciso in un attentato attribuito a una organizzazione anticomunista argentina. Intanto, nell’aprile 1972, i cristiani per il socialismo si erano riuniti nel primo incontro continentale di Santiago del Cile e avevano chiuso il loro documento ufficiale citando un testo di Guevara, che iniziava così: “I cristiani devono optare definitivamente per la rivoluzione, in modo particolare nel nostro continente, dove tanto importante è la fede cristiana tra le masse popolari; ma i cristiani non possono pretendere di imporre nella lotta rivoluzionaria i loro dogmi né di fare proselitismo per lo loro chiese; devono venire senza la pretesa di evangelizzare i marxisti e senza la codardia di occultare la propria fede per assimilarsi a loro…”. Questo, per il Vaticano, era davvero considerato insopportabile. In sostanza i preti rivoluzionari sudamericani dovevano abdicare ai loro principi, alla propria fede e allearsi strategicamente ai marxisti per affiancarli nella lotta armata. Ecco perché la “teoria della liberazione” fu duramente contrastata da papa Giovanni Paolo II. »
3) Secondo lei come verrà accolta la sua inchiesta dalle frange estremiste che militano a destra? Accetteranno o smentiranno categoricamente quanto da Lei confutato?
« Finora non ci sono state confutazioni o critiche al contenute di “L’altro Che” da parte dei gruppi della destra radicale. E devo aggiungere che conferme sono arrivate anche dalla destra cosiddetta ufficiale: infatti “Il Secolo d’Italia”, organo di quella che era fino a poco tempo fa Alleanza Nazionale, ha dedicato al libro ampio spazio. Molti elogi, soltanto un appunto: proprio per mettere in risalto che io ho sempre fatto riferimento all’estrema destra per quanto riguarda la passione per il Che, quando invece anche la destra istituzionale ha apprezzato il romanticismo e l’altruismo di Guevara. Comunque so di certo che a destra non tutti condividono questa passione: ci sono molti camerati che dissentono, giudicando il Che un marxista che voleva imporre la dottrina e la politica di Mosca nell’America Latina. Però sono una minoranza che in occasione dell’uscita del libro non hanno manifestato dissenso nelle discussioni che si sono accese sui blog dei siti della destra radicale. Per la verità la stragrande maggioranza della destra movimentista ha accolto il libro con molto favore, giudicandolo complessivamente rispondente alla realtà dei fatti. »
4) Perché tanta ritrosia nel riconoscere ufficialmente un’ammirazione per l’impegno sociale di Ernesto Che Guevara? È soltanto una questione di schieramento politico, o vi è dell’altro?
« E’ una questione politica. Storicamente Ernesto Guevara appartiene alla sinistra internazionale. Se ne “impossessarono” gli studenti delle università californiane quando iniziarono la contestazione anticipando quella europea. L’ufficializzazione del Che di sinistra avvenne durante il maggio parigino del ’68. Anche se qualche anno prima alcuni esponenti della destra italiana e francese avevano mostrato interesse e ammirazione per il Che, la sinistra non ha mai voluto riconoscere un’appartenenza diversa del guerrigliero argentino. Tanto è vero che “L’altro Che” è stato praticamente ignorato dalla stampa progressista che si è trovata di fronte a un grosso rebus: se parliamo del libro, sdoganiamo i fascisti? Questo è sempre stato l’assillo della sinistra (e io lo so bene), basti vedere l’esempio che arriva dall’accoglienza fatta puntualmente ai libri di Gianpaolo Pansa (anche lui –guarda caso- arriva dalle stanze dell’ “Espresso”), il quale viene accusato di essere un revisionista. Anche se da qualche anno la sinistra, anche quella italiana, ha abbandonato il Che al suo destino (ormai non appare più nemmeno una bandiera con la faccia del Che nelle manifestazioni di antagonisti e di no-global), non accetta però che qualche altra parte, soprattutto a destra, si appropri del mito del Che. »
5) Il suo libro oltre ad essere ben scritto, è molto ben documentato; quanto tempo ha impiegato per raccogliere il materiale utile per la realizzazione della sua inchiesta?
« I miei libri, ormai sono sette scritti negli ultimi sette anni, hanno la cadenza e la sostanza di inchieste giornalistiche. Quindi mi è assolutamente indispensabile una documentazione ampia e certa. Per raccogliere quella relativa al Che amato a destra, c’è voluto molto tempo: almeno due anni. Non molto, se si pensa che per mettere insieme la documentazione, soprattutto di fonte americana, necessaria per scrivere “Compagna Marilyn” ho impiegato complessivamente vent’anni! Nello stesso tempo ho portato avanti la lavorazione di altri libri, come, per esempio, “La biga rapita”, dove ho dovuto ricostruire –tanto per fare un esempio- l’intero tragitto che i trafugatori hanno fatto per trasferire l’unico esemplare di carro etrusco esistente al mondo dai monti Sibillini, in Umbria, fino ai sotterranei del Metropolitan Museum di New York. E parliamo dell’anno 1902. »
6) Lei non è estraneo alle inchieste cosiddette scomode; ricordiamo una su tutte quella racchiusa nel suo libro “Compagna Marilyn”, dedicato alla misteriosa scomparsa dell’attrice americana. Si sta preparando a sondare nuovi casi irrisolti ?
« E’ vero, sono sempre stato attratto dai casi misteriosi, dove se non c’è almeno una morte oscura, ci sono però circostanze mai chiarite di furti clamorosi, sequestri di persona, sparizioni mai risolte, oppure ricchezze improvvise e scalate clamorose. Insomma, laddove c’è ancora un aspetto “misterioso” di fatti e avvenimenti, per me c’è la tentazione di vederci chiaro. Perché, per l’esperienza trentennale di inviato dell’ “Espresso”, ho ormai acquisito questa certezza: anche i fatti più semplici nascondo lati inquietanti, o per lo meno enigmatici. Di recente un giornale inglese ha pubblicato la classifica dei dieci misteri più affascinanti del mondo (c’è anche la morte della Monroe). Sono tentato di occuparmi di quello che riguarda la sparizione del musicista americano Glenn Miller nella Parigi appena liberata dai tedeschi; un mistero affascinante: il celebre direttore d’orchestra si esibiva in un locale poco lontano dal suo albergo, una sera, come faceva sempre, salutò la sua orchestra e si avviò a piedi verso l’hotel. In quel breve tratto di strada, sparì e da allora si sono perse le sue tracce. Poi ci sono le morti “incerte” di personaggi famosi. Sono morti di morte naturale o sono stati uccisi? L’elenco è abbastanza lungo, quindi ne cito solo alcuni: Bertolt Brecht, Egon Schiele, Garcia Lorca, il quinto Rolling Stones, Syd Barret, Nina Kandinsky, Ken Lay il patron della Euron. Ma c’è un personaggio che non è legato né a morti misteriose né ad altro di oscuro. Però nasconde un “mistero”. Si tratta di un italiano, Giancarlo Parretti. Faceva il cameriere in un ristorante per turisti a Orvieto. Dopo pochi anni sedeva sulla poltrona di presidente e maggiore azionista della Metro Goldwym Mayer, una delle più prestigiose major di Hollywood. Mi sono occupato a lungo e a fondo di questo incredibile personaggio (che ora è tornato a vivere a Orvieto) per “L’Espresso”: molti misteri sono riuscito a svelarli, ma quello principale ancora no: come ha fatto ad arrivare nel cuore di Hollywood? Sinceramente non so ancora quale argomento sceglierò, magari uno completamente diverso da quelli che ho elencato. Di sicuro ci sarà qualche lato oscuro da chiarire. »
Ecco l’intervista da me realizzata a Mario La Ferla:
1) Come è venuto a conoscenza della passione e della stima professata dalla destra nei confronti di Ernesto Che Guevara?
« La passione della destra per il Che è di vecchia data, ormai fa parte della cronaca e della storia politica italiana del Novecento. Quindi ne sono venuto a conoscenza, come dire, in presa diretta, soprattutto svolgendo il mio lavoro di inviato all’ “Espresso” dove sono rimasto per trent’anni. Ricordo che la prima notizia dell’amore a destra per Guevara la appresi direttamente da alcuni autori del Bagaglino, il cabaret romano rigorosamente di destra, i quali erano tutti ammiratori del Che. Quando alcuni di essi furono informati della morte del guerrigliero, il 9 ottobre 1967, decisero di dovergli rendere subito un omaggio. Pierfrancesco Pingitore insieme con il maestro Dimitri Gribanovski compose un mese dopo una ballata, “Addio Che”, che venne poi cantata da Gabriella Ferri. La ballata addirittura apriva e chiudeva, al massimo volume, i comizi di Pino Rauti durante la campagna elettorale per le elezioni del 1968. Poi ci fu, appunto, il ’68. Il primo marzo di quell’anno, a Roma, a Valle Giulia, molti ragazzi di destra presero parte alle proteste che sfociarono in violenti scontri con la polizia. Fu proprio in quell’occasione, deplorata da Pier Paolo Pasolini che si schierò dalla parte dei poliziotti, figli di veri proletari, che i rappresentanti della destra radicale sbandieravano le immagini del Che. Tra la fine del ’67 e l’inizio del ’69, lo sceneggiatore Adriano Bolzoni, chiamato il “ragazzo di Salò, per la sua adesione alla Repubblica Sociale, scrisse un libro sul Che che trasformò subito in un copione per un film che fu girato nella primavera del ’68. Erano il primo libro e il primo film dedicati al Che, primi nel mondo. Poi, a Parigi, fu pubblicato il libro “Une passion pour Che Guevara”, scritto da Jean Cau, ex intellettuale di sinistra e segretario di Jean-Paul Sartre, passato poi a destra a causa di dissidi per la questione algerina. Jean Cau, nel suo libro, si rivolgeva direttamente al Che, facendone alla fine un ritratto eroico. Lo paragonò addirittura a Gesù Cristo: il libro ebbe un grande successo, non solo tra i lettori di destra. Comunque contribuì a diffondere ancora di più a destra il mito di Ernesto Guevara.
Posso aggiungere che la scintilla per il Che si era già accesa ancora prima della morte di Guevara, esattamente verso la metà degli anni 60. Lo ricorda lo scrittore e storico fiorentino Franco Cardini, celebre medievalista, allora giovane iscritto al Movimento sociale e poi alla Giovane Europa di Jean Thiriart. Addirittura il primo omaggio al Che avvenne nel 1961, a Firenze, in occasione dell’occupazione dell’università da parte del Fuan. E l’ammissione di Guevara tra le file dei giovani contestatori di destra venne ufficializzata nel giugno 1965, durante il congresso provinciale del Msi con l’uscita dei giovani amici di Cardini che nel partito ci stavano ormai stretti. Posso citare altri ricordi di casi che hanno contribuito a fare del Che il simbolo della destra movimentista, e che ho via via acquisito durante il mio lavoro di giornalista. Per esempio, la rivista “L’Orologio” di Luciano Lucci Chiarissi, poi il giornale della federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale di Salò “Azimut” e il foglio giovanile “Controcorrente”. E dopo l’ideologo Jean Thiriart, a consolidare l’ammirazione per il Che contribuirono gli scritti e i discorsi di Alain de Benoist, capofila della “Nouvelle Droite”. Comunque è stato il ’68 a rivelare l’amore per il Che, in maniera vistosa e lampante, e a confermare il culto per il guerrigliero che rappresentava il mito ideale: la figura del perdente coniugata a quella dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico. Il successo del Che presso i giovani di destra è via via aumentato grazie all’intervento di scrittori e intellettuali, non soltanto di destra (basta citare l’ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana autore di “I ragazzi del Che”), che hanno accostato Ernesto Guevara a personaggi famosi che facevano già parte dell’immaginario collettivo della destra ribelle. Per esemio: Lawrence d’Arabia, i personaggi di Salgari, Giuseppe Garibaldi, Zorro e Don Chisciotte, insomma la stirpe dei futuristi guidati da Marinetti, e poi Giovanni Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinad Céline, Ernst Junger e di Giuseppe Prezzolini.»
2) Nel suo libro lei fa riferimento all’immagine del Che comparata, subito dopo la morte, alla figura messianica e salvifica del Cristo. Da questa simbologia scaturì in America Latina la “teoria della liberazione”. Alcuni preti e teologici cattolici se ne fecero promotori; ma fu fermamente respinta da papa Giovanni Paolo II. Può spiegarci perché tale insegnamento fu decisamente combattuto dalle più alte gerarchie vaticane?
« Nonostante il richiamo ai dettami del Concilio Vaticano II, la maggior parte dei sacerdoti sudamericani che avevano dato vita al concetto di “teoria della liberazione” si era schierata apertamente e provocatoriamente a favore della lotta armata. Un anno e mezzo prima della morte del Che, il sacerdote colombiano Camilo Torres era stato ucciso in combattimento. Fin dagli anni 60 Torres aveva abbracciato la militanza politica e guerrigliera e per questo fu ritenuto “el ejemplo mas alto de la lucha cristiana y revolucionaria en America Latina”, che alla pari di Guevara sosteneva che “el deber de todo cristiano es ser revolucionario”. Nel comunicato stampa del giugno 1965, Camilo Torres spiegava le ragioni per cui aveva chiesto all’arcivescovo di Bogotà il suo esonero dagli obblighi inerenti la sua condizione di sacerdote (d’altra parte gli era già stato proibito di celebrare la messa sia in pubblico che in privato): “Ritengo che la lotta rivoluzionaria sia una lotta cristiana e sacerdotale. Solamente grazie a questa, nelle circostanze concrete della nostra patria, possiamo realizzare l’amore che gli uomini devono avere per il prossimo”. Il passaggio nella mediazione ideologica tra l’eredità di Torres e quella di Guevara fu attuato da Juan Garcìa Ellorio, argentino, cresciuto in un seminario di gesuiti. Proprio partendo dall’insegnamento del Concilio Vaticano II, Ellorio –dopo aver fondato la rivista “Cristianismo y Revoluciòn”- elaborò i piani teorico-politici e organizzativi per preparare, sulla scia di Torres, la lotta armata in Argentina. Convinto che la rivoluzione non potesse imporsi senza la “violencia armada”, dopo una serie di operazioni militari eseguite attraverso il Comando Camilo Torres e altri commandos, Ellorio morì in un misterioso attentato nel gennaio 1970. Tutto questo era più che sufficiente per mettere in allarme il Vaticano, che non poteva restare indifferente di fronte a un fenomeno di così vaste proporzioni che si stava diffondendo nell’America Latina, contro ogni fondamentale principio propagandato dal cristianesimo. E l’allarme in Vaticano diventò ancora più assillante quando nel movimento rivoluzionario iniziato da Camilo Torres erano via via confluiti sacerdoti che si ispiravano alla rivoluzione popolare del presidente argentino Juan Domingo Peròn. Questa ‘esplosiva’ confluenza di preti peronisti nel movimento dei preti ribelli fedeli all’insegnamento di Torres e di Ellorio, venne ufficializzata in documento detto di Torres e di impegno, scritto nel Natale del 1968. I preti cristiani e rivoluzionari sostenevano che “per la nostra coscienza di cristiani è giunta, con drammatica urgenza, l’ora dell’azione che dovrà essere portata a termine con l’audacia dello spirito e l’equilibrio di Dio, denunciando energicamente gli abusi e le conseguenze ingiuste delle eccessive disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli…”. Il Vaticano reagì energicamente. Di ispirazione peronista era padre Mugica, il quale ebbe un ruolo molto importante nel tentare una conciliazione tra le due posizioni: quella del Vaticano e quella dei preti rivoluzionari, insomma i metodi pacifici e il ricorso alle armi. Padre Mugica aveva dato vita all’organizzazione dei “Sacerdotes para il Tercer Mundo” schierandosi al fianco dei deboli e degli oppressi, ma allo stesso tempo sosteneva che fosse impossibile per lui cristiano aderire alla lotta armata, affermando che la violenza era incompatibile con il messaggio evangelico, e dichiarando che era disposto a dare la vita per la rivoluzione ma non a uccidere per essa. Nel maggio 1974 fu ucciso in un attentato attribuito a una organizzazione anticomunista argentina. Intanto, nell’aprile 1972, i cristiani per il socialismo si erano riuniti nel primo incontro continentale di Santiago del Cile e avevano chiuso il loro documento ufficiale citando un testo di Guevara, che iniziava così: “I cristiani devono optare definitivamente per la rivoluzione, in modo particolare nel nostro continente, dove tanto importante è la fede cristiana tra le masse popolari; ma i cristiani non possono pretendere di imporre nella lotta rivoluzionaria i loro dogmi né di fare proselitismo per lo loro chiese; devono venire senza la pretesa di evangelizzare i marxisti e senza la codardia di occultare la propria fede per assimilarsi a loro…”. Questo, per il Vaticano, era davvero considerato insopportabile. In sostanza i preti rivoluzionari sudamericani dovevano abdicare ai loro principi, alla propria fede e allearsi strategicamente ai marxisti per affiancarli nella lotta armata. Ecco perché la “teoria della liberazione” fu duramente contrastata da papa Giovanni Paolo II. »
3) Secondo lei come verrà accolta la sua inchiesta dalle frange estremiste che militano a destra? Accetteranno o smentiranno categoricamente quanto da Lei confutato?
« Finora non ci sono state confutazioni o critiche al contenute di “L’altro Che” da parte dei gruppi della destra radicale. E devo aggiungere che conferme sono arrivate anche dalla destra cosiddetta ufficiale: infatti “Il Secolo d’Italia”, organo di quella che era fino a poco tempo fa Alleanza Nazionale, ha dedicato al libro ampio spazio. Molti elogi, soltanto un appunto: proprio per mettere in risalto che io ho sempre fatto riferimento all’estrema destra per quanto riguarda la passione per il Che, quando invece anche la destra istituzionale ha apprezzato il romanticismo e l’altruismo di Guevara. Comunque so di certo che a destra non tutti condividono questa passione: ci sono molti camerati che dissentono, giudicando il Che un marxista che voleva imporre la dottrina e la politica di Mosca nell’America Latina. Però sono una minoranza che in occasione dell’uscita del libro non hanno manifestato dissenso nelle discussioni che si sono accese sui blog dei siti della destra radicale. Per la verità la stragrande maggioranza della destra movimentista ha accolto il libro con molto favore, giudicandolo complessivamente rispondente alla realtà dei fatti. »
4) Perché tanta ritrosia nel riconoscere ufficialmente un’ammirazione per l’impegno sociale di Ernesto Che Guevara? È soltanto una questione di schieramento politico, o vi è dell’altro?
« E’ una questione politica. Storicamente Ernesto Guevara appartiene alla sinistra internazionale. Se ne “impossessarono” gli studenti delle università californiane quando iniziarono la contestazione anticipando quella europea. L’ufficializzazione del Che di sinistra avvenne durante il maggio parigino del ’68. Anche se qualche anno prima alcuni esponenti della destra italiana e francese avevano mostrato interesse e ammirazione per il Che, la sinistra non ha mai voluto riconoscere un’appartenenza diversa del guerrigliero argentino. Tanto è vero che “L’altro Che” è stato praticamente ignorato dalla stampa progressista che si è trovata di fronte a un grosso rebus: se parliamo del libro, sdoganiamo i fascisti? Questo è sempre stato l’assillo della sinistra (e io lo so bene), basti vedere l’esempio che arriva dall’accoglienza fatta puntualmente ai libri di Gianpaolo Pansa (anche lui –guarda caso- arriva dalle stanze dell’ “Espresso”), il quale viene accusato di essere un revisionista. Anche se da qualche anno la sinistra, anche quella italiana, ha abbandonato il Che al suo destino (ormai non appare più nemmeno una bandiera con la faccia del Che nelle manifestazioni di antagonisti e di no-global), non accetta però che qualche altra parte, soprattutto a destra, si appropri del mito del Che. »
5) Il suo libro oltre ad essere ben scritto, è molto ben documentato; quanto tempo ha impiegato per raccogliere il materiale utile per la realizzazione della sua inchiesta?
« I miei libri, ormai sono sette scritti negli ultimi sette anni, hanno la cadenza e la sostanza di inchieste giornalistiche. Quindi mi è assolutamente indispensabile una documentazione ampia e certa. Per raccogliere quella relativa al Che amato a destra, c’è voluto molto tempo: almeno due anni. Non molto, se si pensa che per mettere insieme la documentazione, soprattutto di fonte americana, necessaria per scrivere “Compagna Marilyn” ho impiegato complessivamente vent’anni! Nello stesso tempo ho portato avanti la lavorazione di altri libri, come, per esempio, “La biga rapita”, dove ho dovuto ricostruire –tanto per fare un esempio- l’intero tragitto che i trafugatori hanno fatto per trasferire l’unico esemplare di carro etrusco esistente al mondo dai monti Sibillini, in Umbria, fino ai sotterranei del Metropolitan Museum di New York. E parliamo dell’anno 1902. »
6) Lei non è estraneo alle inchieste cosiddette scomode; ricordiamo una su tutte quella racchiusa nel suo libro “Compagna Marilyn”, dedicato alla misteriosa scomparsa dell’attrice americana. Si sta preparando a sondare nuovi casi irrisolti ?
« E’ vero, sono sempre stato attratto dai casi misteriosi, dove se non c’è almeno una morte oscura, ci sono però circostanze mai chiarite di furti clamorosi, sequestri di persona, sparizioni mai risolte, oppure ricchezze improvvise e scalate clamorose. Insomma, laddove c’è ancora un aspetto “misterioso” di fatti e avvenimenti, per me c’è la tentazione di vederci chiaro. Perché, per l’esperienza trentennale di inviato dell’ “Espresso”, ho ormai acquisito questa certezza: anche i fatti più semplici nascondo lati inquietanti, o per lo meno enigmatici. Di recente un giornale inglese ha pubblicato la classifica dei dieci misteri più affascinanti del mondo (c’è anche la morte della Monroe). Sono tentato di occuparmi di quello che riguarda la sparizione del musicista americano Glenn Miller nella Parigi appena liberata dai tedeschi; un mistero affascinante: il celebre direttore d’orchestra si esibiva in un locale poco lontano dal suo albergo, una sera, come faceva sempre, salutò la sua orchestra e si avviò a piedi verso l’hotel. In quel breve tratto di strada, sparì e da allora si sono perse le sue tracce. Poi ci sono le morti “incerte” di personaggi famosi. Sono morti di morte naturale o sono stati uccisi? L’elenco è abbastanza lungo, quindi ne cito solo alcuni: Bertolt Brecht, Egon Schiele, Garcia Lorca, il quinto Rolling Stones, Syd Barret, Nina Kandinsky, Ken Lay il patron della Euron. Ma c’è un personaggio che non è legato né a morti misteriose né ad altro di oscuro. Però nasconde un “mistero”. Si tratta di un italiano, Giancarlo Parretti. Faceva il cameriere in un ristorante per turisti a Orvieto. Dopo pochi anni sedeva sulla poltrona di presidente e maggiore azionista della Metro Goldwym Mayer, una delle più prestigiose major di Hollywood. Mi sono occupato a lungo e a fondo di questo incredibile personaggio (che ora è tornato a vivere a Orvieto) per “L’Espresso”: molti misteri sono riuscito a svelarli, ma quello principale ancora no: come ha fatto ad arrivare nel cuore di Hollywood? Sinceramente non so ancora quale argomento sceglierò, magari uno completamente diverso da quelli che ho elencato. Di sicuro ci sarà qualche lato oscuro da chiarire. »
intervista a cura di: Cristian Porcino