martedì 16 dicembre 2014

Riflettori su Renato Zero

"Chiedi di lui" - viaggio nell'universo musicale di Renato Zero - è un piccolo miracolo e un grande libro. Piccolo perché non è facile ottenere lusinghieri risultati di vendite per due autori poco conosciuti e non supportati da adeguato battage pubblicitario. Ma è accaduto. E, a distanza di quasi un anno, l'opera continua a destare interesse e curiosità. Grande perché "Chiedi di lui" affascina per la scrittura vivace, la completezza delle informazioni, l'originalità della narrazione. Il testo è suddiviso in tre parti: nella prima, affidata a Daniela Tuscano, si percorre la prima fase della carriera di Zero; Cristian Porcino si dedica ai suoi anni più recenti; nella terza si trova una nutrita raccolta di testimonianze di "sorcini" di ogni età e non manca nemmeno una inedita galleria fotografica.
Attraverso i brani del cantautore scorrono, come in un film, oltre quarant'anni di vita italiana (e non solo), quarant'anni in cui è cambiato tutto, stravolte convinzioni, ribaltato valori, sovvertito - e ricomposto - rapporti interpersonali. E molto di più.


- E oggi, che cosa resta di tutte quelle strade, di quei tentativi, di quell'allegria, anche? Quanto è davvero mutato e quante sfide restano ancora aperte?

DANIELA: «Esistono periodi storici irripetibili e l'ultimo scorcio del '70 fu uno di questi. Anni tragici per molti, anni tossici, malati, del declino dell'innocenza (e l'assassinio di Pasolini segna, in tal senso, uno spartiacque); e, nel frattempo, di grande sperimentalismo, nell'arte e soprattutto nel costume. Quindi anni anche colorati, provocatori. Un abbozzo di rivoluzione. Dove un personaggio come Renato Zero s'impose come sfavillante meteora. Declinò in un lessico italiano le suggestioni di Marc Bolan, David Bowie, Mick Jagger ecc. Non se ne accorsero in tanti».

- Eppure, voi raccontate che molti insospettabili intellettuali seguono, o hanno seguito Renato Zero. Anche amanti della musica "seria". Come si spiega?

CRISTIAN: «Nel melodramma delle opere liriche dei nostri più grandi compositori è racchiusa una tragicità del tutto connaturale alla vita. In questo Zero si avvicina a quel mondo e ben lo rappresenta. Nella sua intera produzione sono presenti elementi scenografici (e non solo) del mondo del teatro, incluso quello lirico. Il grande Luciano Pavarotti stimava Zero e anche Katia Ricciarelli; perfino il maestro Riccardo Muti ha espresso grande interesse e ammirazione nei confronti delle canzoni del cantautore romano. Il musicista Daniel Barenboim ha detto in un’intervista: “Purtroppo negli ultimi tempi troppe persone vivono senza mai nessun contatto con essa. La musica è finita in una torre d'avorio, puro piacere estetico per pochi eletti. Invece dovrebbe essere prima di tutto educazione alla vita. Se impari a "pensare la musica" capisci tutto: che il tempo può essere oggettivo e soggettivo, la relazione tra passione e disciplina, la necessità di aprirsi agli altri... Se suoni il violino e non ascolti allo stesso tempo il clarinetto non si può far musica”. Per parafrasare il titolo di un libro di Barenboim, “La musica è un tutto”!»

- Non va comunque dimenticato che Zero non è stato solo melodia, ma anche ritmo e rock - aggiunge Daniela. - Io lo conobbi così e per me quell'immediatezza secca ed esplicita è un tesoro da ritrovare assolutamente.

- Mi sorprende l'aggettivo "esplicito" per Renato Zero. Io avrei usato "elusivo/allusivo", ma confesso di non averlo conosciuto agli inizi. Invece, leggendo il libro...

DANIELA: «...ci si rende conto che era proprio così. Si potrebbe aggiungere "spontaneo" che, del resto, non significa improvvisato. Renato era un talento naturale, diciamo pure selvaggio, non un'operazione studiata a tavolino né il frutto di un'elaborazione intellettuale. A differenza di altri cantautori il suo messaggio - non solo le canzoni, ma l'aspetto, il personaggio, la sua stessa vita - giungeva diretto, senza intermediari. Era unico, perfino solo. Ma in ciò risiedeva la sua forza. Oggi taluni scrivono di percezioni, di fraintendimenti, quasi il Nostro intendesse comunicare qualcosa di diverso da ciò che in realtà era. Si propongono interpretazioni capziose di certi suoi brani, si tende a rendere episodico quanto invece costituiva il nerbo della sua intera poetica, si accantonano testimonianze per sottolinearne solo altre. No, se Renato si fosse limitato a dipingere, in maniera magari impeccabile ma distaccata - o, peggio, metaforica -, un mondo che non gli apparteneva non sarebbe entrato nel cuore di tanta gente. Del resto lui stesso non mancava mai di sottolinearlo, ben consapevole che in quello, non nell'essere un semplice esecutore o "traduttore" d'emozioni altrui, risiedeva la sua originalità».

- Naturalmente - incalza Cristian - l'ascoltatore recepisce messaggi che poi rimodula e adatta alla propria vita in base alle esigenze personali. Non si può continuare sulla falsariga d'un repertorio già sentito. Vivere significa anche cambiare idea.


- Cristian, per ragioni anagrafiche ti sei avvicinato a Zero dalla seconda parte della sua carriera. Che cos'hai trovato di stimolante in lui negli ultimi tempi?

CRISTIAN: «Vivevo quel determinato periodo storico e non potevo entusiasmarmi a qualcosa che non conoscevo. Su di me la sua musica ha esercitato una certa influenza soprattutto con i suoi album del passato. Grazie a questi ultimi ho compreso lo Zero che ascoltavo in quel preciso momento. In ogni periodo artistico esiste una certa continuità e dovevo risalire alla fonte di questa sorgente creativa. Ovviamente lo credevo sincero nei suoi messaggi altrimenti non mi sarei mai lasciato trasportare da qualcuno che millantava esperienze ed emozioni mai provate. Ogni artista quando ascolta la propria anima elabora contenuti onirici e immaginifici che provengono da una dimensione esistenziale non definibile. In quel momento il suo Io interiore è nudo e non può fingere. Poi ovviamente torna in sé e magari fatica a comprendere ciò che ha scritto in quel preciso istante. Il processo creativo di un artista è qualcosa che ci avvicina alla nostra origine primigenia, quando eravamo tutt’altro da ciò che siamo oggi».

- Un discorso di coerenza?

CRISTIAN: «La coerenza è d’obbligo per un essere umano adulto, e a maggior ragione per un artista. Solo l’artista, però, è in grado di sapere se ha rispettato la sua voce interiore. Naturalmente, come ho detto, si può cambiare opinione. L’unica cosa che può stonare in tutto il contesto è negare o prendere di fatto le distanze da un passato storico che, nel bene o nel male, ci ha fatto diventare ciò che siamo. Diceva Lao Tzu: “La correzione si converte in falsità”. Diciamo che un artista deve utilizzare più riflessione critica verso se stesso anziché autocelebrazione».

- Avete menzionato Pasolini. E nel libro descrivete Zero come un "pasoliniano inconsapevole"...

DANIELA: «Pasolini è uno dei massimi poeti del Novecento, Renato Zero un cantante pop. Si potrebbe finire qui. Ma c'è quell'aggettivo, inconsapevole, appunto. È sempre il discorso della spontaneità: Zero nella primissima parte della sua vicenda artistica e umana somigliava a un protagonista dei romanzi romani del poeta. In seguito no, negli ultimi anni ne ha anche preso le distanze. Senza volerlo ha però dato voce e a suo modo amplificato, a livello di fruizione popolare, quei marginali tratteggiati da Pier Paolo. La tanto bistrattata "canzonetta", in fondo, serve anche a questo. Ho saputo di gente che si è avvicinata a Pasolini dopo aver ascoltato alcuni vecchi brani di Zero».

CRISTIAN: «Non credo che nei primi anni della sua vita artistica Zero si sia soffermato più di tanto a studiare dettagliatamente l’opera di Pier Paolo. Era totalmente preso dalla sua carriera e dall’inseguire quella voglia di riscatto che albergava in lui. A Pasolini lo legava un certo modo di vivere la periferia e l’esistenza dei più ultimi, ma i due hanno effettuato un percorso esistenziale e artistico ben diverso. Quello di Pasolini estremo e fatale, quello di Zero audace in un primo momento e più rasserenante nella seconda parte della sua carriera».

- Daniela, la tua narrazione si ferma al 1991 anche se apri significativi spiragli sulle decadi successive. Qual è il periodo secondo te più fecondo del Renato maturo?

DANIELA: «L'ho scritto: la seconda metà degli anni Ottanta, cioè quel lasso di tempo oscuro - dal punto di vista delle vendite - non ancora sufficientemente valorizzato e l'intero decennio dei Novanta. Veramente, adesso considero quelle sonorità un po' datate ma all'epoca le trovai interessanti, forse un tantino manieristiche, ma Renato è anche bel canto, più vicino a Claudio Villa che a Modugno. Fra gli album del periodo Duemila ho apprezzato in particolare "Cattura" e le prove dal vivo».

- A breve si inaugurerà "Zero", una mostra multimediale sull'arte di Renato...

DANIELA: «Ovviamente non ne so molto, anzi, come tutti, quasi nulla! Renato, così italiano, ancora una volta sembra ripercorrere le strade dei colleghi d'oltremanica, Beatles e David Bowie. Sarà l'occasione per avvicinare alla poetica di Zero un pubblico più ampio e vario rispetto ai fans abituali? È presto per dirlo. Alcuni suoi pezzi compaiono in alcune antologie scolastiche. Forse ancora poche. Non è necessario un riconoscimento dall'Accademia dei Lincei per i cantautori, come pure qualcuno pretende. I cantautori non sono poeti. Ma un loro spazio nell'immaginario e, perché no, nella creazione d'un nuovo linguaggio popolare probabilmente lo meritano».

CRISTIAN: «Concordo con Daniela. Si sa molto poco di questo evento, e quindi non posso esprimermi in tal senso. Nondimeno una carriera non è fatta esclusivamente di momenti visibili da accumulare ed esporre in vetrina. Il visibile non corrisponde certamente al vissuto dell’artista e a quello dei suoi ammiratori. Si corre il pericolo di focalizzarsi e cristallizzarsi in una dimensione nostalgica che produce solamente una vuota deferenza al passato che si è vissuto con estrema intensità. Mi rammarica tuttavia che prima dell’uscita del libro e inizialmente, quando nel 2008 pubblicai il testo “I cantautori e la filosofia da Battiato a Zero”, nessuno scorgeva nella sua opera appigli culturali. Adesso, invece, è iniziata una caccia al tesoro, con tanto di concorsi letterari creati per decifrare questo artista un tempo fin troppo snobbato e adesso giustamente osannato. Mi fa piacere per lui, ma occorre ricordare che in tempi non sospetti ci eravamo già interessati all’aspetto culturale della sua arte e, ahimé, non siamo stati presi granché in considerazione. Meglio tardi che mai!»

Emilio Bacchetta (Color Porpora, dicembre 2014)