martedì 13 novembre 2012

“Dawson’s Creek” una serie intramontabile

Una piacevole chiacchierata con Cristian Porcino autore del libro “Dawson’s Creek. Analisi di un telefilm cult”, € 13,00. 1) Perché ha voluto scrivere un libro su una serie televisiva? «Non ho mai guardato i telefilm con quel tipico snobbismo radical chic che spesso attanaglia gli intellettuali. In un episodio di “Dawson’s Creek” il protagonista osservando in tv una scena di un telefilm (in quel caso“Felicity”) tentava di ridimensionarne il valore intrinseco, considerando che un film ha un valore e uno spessore superiore a quello di un semplice tv movie. Senza scendere nei particolari tecnici un buon telefilm può eguagliare per intensità un film di due ore. Esistono, infatti, serie televisive che sono diventate dei simboli per diverse generazioni, come ad esempio “Dawson’s Creek”, mentre vi sono invece dei blockbuster che sbancano i botteghini per alcune settimane e dopo nessuno se ne ricorda più. Questo significa che osservare le cose con l’ausilio dei soliti preconcetti non conduce da nessuna parte». 2) Lei parla dei telefilm come se tutti quelli trasmessi in tv fossero degni di un approfondimento culturale. Lo crede davvero? « Io non ho mai sostenuto che tutti i telefilm in circolazione sono degni d’attenzione. Nel mio libro non mi sono occupato del mondo dei serial, ma solamente di un telfilm. “Dawson’s Creek” è a mio parere il telefilm più importante transitato in tv negli ultimi dieci anni. I temi affrontati, lo spessore culturale dei dialoghi sono davvero ineguagliabili. Osservando l’intera serie si coglie nell’immediato che a pervadere questo serial è proprio l’amore per il cinema, l’arte e la letteratura. Tutto raccontato con un grado di autenticità non indifferente. Ecco perché ritengo il progetto ideato da Kevin Williamson simile a ciò che una volta era considerato in letteratura un romanzo di formazione». 3) Infatti nel suo libro lei accosta spesso i dialoghi di Dawson’s Creek ad alcune opere importanti della letteratura internazionale. Quale ruolo ha rivestito la letteratura nella sua formazione di studioso e poi di scrittore? «Il mio rapporto con la letteratura inizia in tenera età. I miei genitori quando ero ragazzino mi regalavano spessissimo dei libri e io non riuscivo a resistere al fascino racchiuso al loro interno. Leggere mi ha aiutato a comprendere la realtà che mi circondava e a capire meglio me stesso; un po’ come accade nella finzione cinematografica a Dawson Leery con il mondo del cinema. Non ho mai smesso di leggere, nemmeno durante i miei studi liceali e universitari. Come sostiene lo scrittore Daniel Pennac nel libro “Come un romanzo” : “La lettura non ha niente a che fare con l'organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l'amore, un modo di essere. La questione non è di sapere se ho o non ho tempo per leggere (tempo che nessuno, d'altronde, mi darà), ma se mi concedo o no la gioia di essere lettore." La verità è che occorre comprendere quanto sia importante sperimentare la gioia di leggere un testo, di entrare in comunicazione con un universo creato e dibattutto da uno scrittore appartenente ad un passato distante anni luce dal proprio oppure contemporaneo del lettore stesso. Quindi posso affermare che la letteratura ricopre tutt’oggi un ruolo fondamentale per la mia esistenza».
4) Quali altri telefilm ritiene particolarmente meritevoli? «Del passato sicuramente “La casa nella prateria”, “La signora del west”, oppure “Felicity”o “Everwood”; oggi indubbiamente “Glee”. I primi due citati sono ambientati in un contesto storico importante come l’America post Lincoln e la vita americana alle prese con la convivenza di popolazioni diverse fra loro come gli indiani e i coloni, il fenomeno dell’emigrazione cinese e l’emancipazione femminile ecc. “Glee” invece è un telefilm che grazie alla musica riesce ad affrontare temi come il bullismo, la diversità e le crisi adolescenziali con un linguaggio che i giovani di tutto il mondo non stentano a riconoscere. Poi chiaramente citerei un telefilm come “Supernatural” ambientato nel mondo dell’horror e “Once upon a time” legato al regno delle favole. Ma questi sono soltanto alcuni nomi, farli tutti sarebbe impossibile». 5) Il suo saggio appassiona e coinvolge perché riesce a far amare “Dawson’s Creek” anche a chi in precedenza ne era rimasto tiepidamente colpito oppure totalmente indifferente. Il suo è uno dei pochi libri letti sull’argomento che mi ha particolarmente emozionata. La passione e il coinvolgimento viscerale racchiusi lungo le pagine del libro costituiscono un vero punto di forza del suo testo. Com’è nato il presente progetto? «Grazie mille per il suo giudizio che, detto per inciso, mi lusinga molto. La prima volta che ho pensato di scrivere un libro su “Dawson’s Creek” risale a circa dieci anni fa quando finì la presente serie televisiva. Le emozioni suscitate sono andate via via maturando in un crescendo di riflessioni che sono poi culminate nel saggio attuale. Alcuni lettori dopo aver letto “Dawson’s Creek. Analisi di un telefilm cult” mi hanno comunicato di aver condiviso le mie analisi sui protagonisti e la storia. Questo mi ha fatto molto piacere perché significa che è stato compreso l’intento del testo. Approfitto dell’occasione per ringraziare l’admin della pagina facebook “Dawson’s Creek Quotes” per il supporto e per aver contribuito con la sua testimonianza al mio libro». 6) Un’ultima curiosità, secondo lei quali sono le differenze tra le serie televisive straniere e quelle italiane? «Le differenze esistono e sono nette. Le fiction italiane si occupano principalmente di affrontare argomenti legati ai sentimenti e alle crisi di coppia dovute a tradimenti e simili. Non raramente la criminalità organizzata diventa soggetto ricorrente di fiction che proseguono per diverse stagioni. Le serie americane o inglesi spaziano invece a 360 gradi su ogni argomento. Tanto per fare un esempio la serie inglese “Merlin” racconta del mago Merlino e del suo rapporto con Re Artù, oppure pensiamo a “Downton Abbey” ritratto di una famiglia nobile britannica e i rapporti con la servitù. Chiaramente il budget qui in Italia è davvero scarso e l’ambientazione degli sceneggiati così come la creatività ne risente molto. In fondo anche il nostro cinema ne patisce in inventiva e competitività. Nel mondo si guarda ancora oggi con ammirazione al cinema di Fellini, Antonioni o i film poetici di Pasolini. Certamente non erano gli effetti speciali a prevalere in quei film ma l’estro e la voglia di osare. In definitiva direi che occorre più coraggio. L’immaginazione a noi italiani non manca davvero». (Marilù Beltrami) © Riproduzione riservata