Pier Paolo Pasolini diceva: “Quando la gente non capisce, fabbrica scaffali.”E in effetti, aveva ragione.Capire è un esercizio faticoso. Richiede ascolto, empatia, tempo — e soprattutto la disponibilità a mettere in discussione sé stessi.Giudicare, invece, è un gesto istintivo, quasi consolatorio: non richiede alcuna fatica e, sui social, “rende” anche di più.Viviamo in un’epoca in cui l’opinione è diventata moneta di scambio e il pensiero critico un lusso per pochi. Si reagisce, si etichetta, si scomunica: tutto in nome di un’inconsapevole ansia di appartenenza.Vai a spiegare, allora, ai professionisti del nulla — i de-pensanti di mestiere — che il “Gender” e la “cultura Woke” non esistono come spauracchi ideologici, ma come caricature costruite per alimentare paura e clic.Heidegger diceva: “Il nulla nulleggia.”E oggi quel nulla prende forma nel linguaggio dell’odio, somministrato quotidianamente sotto forma di pregiudizio, sarcasmo e violenza verbale.Un nulla che parla tanto, ma non dice nulla.E intanto, uccide la possibilità stessa di capire. Ben diceva Umberto Eco quando sosteneva: "Avere un nemico è cruciale per definire l'identità di un gruppo, misurare il proprio sistema di valori, dimostrare il proprio valore nell'affrontarlo e rafforzare la coesione sociale. Quando un nemico reale manca, viene costruito per soddisfare questa esigenza".E così, mentre siamo impegnati a costruire il nemico, gli scaffali si riempiono, uccidendo la possibilità stessa di capire.©️ Cristian A. Porcino Ferrara
In qualità di critico letterario mi occupo principalmente di recensire libri. Per l’invio di copie promozionali si prega di contattarmi tramite e-mail. Non si accettano file in formato Pdf, Epub, ecc., ma solamente copie cartacee. Si comunica che le recensioni pubblicate in questo blog sono a titolo gratuito. Non percepisco alcun tipo di pagamento da parte di editori o autori.
lunedì 20 ottobre 2025
Quando la gente non capisce, fabbrica scaffali!
sabato 18 ottobre 2025
Vietare l’educazione sessuo-affettiva è un fallimento della scuola
Vietare per legge l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole medie rappresenta un fallimento profondo del nostro sistema educativo. È quanto prevede il recente decreto discusso in Parlamento: una scelta che rinuncia al compito più alto della scuola — formare cittadini consapevoli, capaci di comprendere sé stessi e gli altri.Non è la sessualità in sé a spaventare, ma la possibilità che le nuove generazioni crescano più libere, consapevoli e felici di quanto non siano stati gli adulti che oggi le educano e le governano. Perché adulti sereni e autonomi difficilmente si lasciano manipolare da chi alimenta paura e semplificazioni.Da insegnanti, vediamo ogni giorno il disorientamento dei ragazzi, immersi in un mondo ipersessualizzato che offre immagini e modelli senza contesto. I loro corpi cambiano, ma mancano le parole per capirli. Non sanno ancora chi sono, e faticano a distinguere ciò che desiderano da ciò che il mondo adulto si aspetta da loro.L’educazione sessuo-affettiva non mira a spiegare il Kamasutra, ma a fornire un linguaggio e un contesto per comprendere la realtà emotiva e corporea che accompagna la crescita. Come ricorda lo psicologo Alberto Pellai, “non parlare di affettività e sessualità non significa proteggerli, ma lasciarli soli” in una società che li espone precocemente a messaggi distorti.La psicoterapeuta Stefania Andreoli aggiunge che questo tipo di educazione non mina i valori familiari, ma li sostiene, perché “la conoscenza di sé è la base della libertà e della responsabilità”.Negare questo spazio di riflessione spinge gli adolescenti verso internet e la pornografia online, con conseguenze profonde sulla percezione di sé e dell’altro. Ma il danno più grave è simbolico: rinunciare a parlare significa rinunciare a pensare. Come ricorda Umberto Galimberti, “vietare di pensare o di parlare di ciò che è naturale significa negare la possibilità stessa di un’etica”, perché l’etica nasce dal confronto consapevole con la nostra dimensione corporea e affettiva.Sottrarre ai ragazzi l’opportunità di nominare ciò che vivono equivale a condannarli al silenzio, e il silenzio genera vergogna, paura, dipendenza da chi promette risposte facili. Se la scuola italiana avesse investito, con la stessa convinzione riservata all’insegnamento della religione, in un’educazione all’affettività e alla sessualità, oggi forse avremmo cittadini più empatici e meno soli.L’educazione sessuo-affettiva non è un pericolo: è un atto di fiducia. Nella libertà, nel pensiero critico, e nella possibilità che i nostri ragazzi diventino adulti migliori di noi.©️ Cristian A. Porcino Ferrara
giovedì 16 ottobre 2025
L’amore rimosso – Parte III: i cartoni animati
La mia generazione è cresciuta dentro un’educazione sentimentale che ci ha insegnato il valore dell'invisibilità.Candy Candy amava Terence, Lady Oscar amava André, Braccio di Ferro amava Olivia, Mirko e Licia, He-Man e Teela.Ovunque lo stesso copione: un lui, una lei, un destino da compiere.L’amore, quello vero, non aveva alternative.Noi, non esistevamo nemmeno come possibilità dell’immaginazione.Non serviva la censura esplicita: bastava l’assenza.La fantasia, che avrebbe dovuto essere il luogo del possibile, è diventata il recinto dell’ovvio.Nel mondo colorato dei cartoni, l’eterosessualità è stata travestita da norma.Tutto il resto, semplicemente, non era raffigurabile, quindi rappresentabile.E quando qualcosa di diverso si affacciava, veniva subito corretto, tradotto, addomesticato.Sailor Uranus e Sailor Neptune, due donne che si amavano, divennero “cugine” nella versione italiana. Per non parlare di episodi di Lady Oscar censurati per non suscitare domande.La tenerezza trasformata in parentela, l’amore in legame di sangue: un’operazione chirurgica dell’anima.Così la purezza del bambino non veniva “contaminata”, e noi continuavamo a crescere senza sapere che anche il nostro modo d’amare poteva avere diritto di parola.Ma il bambino impara presto.Capisce che per essere accettato deve amare come gli viene mostrato. Non sono previste deviazioni dalla tabella di marcia. Un bambino capisce che il bacio tra due uomini o due donne non è per lui, che appartiene a un linguaggio proibito. Un sentiero da non percorrere per non essere respinto.E quando la fantasia stessa ti esclude, la realtà diventa ancora più dura.Non è solo una questione di rappresentazione: è una questione di esistenza.Perché l’immaginario forma la tua persona.Ciò che non è raccontato, lentamente smette di essere pensabile.E se non sei pensabile, sei colpevole, forse, di esistere.Bisognerebbe aprire una riflessione su He-Man che rappresentava una figura eroica dei cartoni animati così intrisa di estetica queer da sfiorare la caricatura della mascolinità stessa. Adam era l’emblema di un machismo esibito, truzzo fino al midollo che definiva l’uomo come colui che deve dominare e imporsi.Oggi fortunatamente qualcuno prova a spezzare quella continuità.Nei nuovi cartoni appaiono gesti diversi: una principessa che ama un’altra principessa (She-Ra and the Princesses of Power), due gemme che si uniscono in un abbraccio amoroso (Steven Universe), un giovane che non deve salvare una donna per legittimarsi come eroe (Strange World).Segnali fragili, ma importanti.Eppure, ogni volta che l’amore queer si affaccia sullo schermo, scatta la difesa morale, la paura, la parola che sentiamo da sempre: “ideologia”.Come se il nostro amore fosse un’invenzione e non una presenza antica quanto il mondo.Come se la cosiddetta normalità potesse essere difesa solo attraverso la rimozione.Se si parla di ideologia, non è chiaro perché non debba applicarsi a un ragionamento di tipo generale. Siamo nati e cresciuti in contesti familiari tradizionali, ma ciò non ha determinato il nostro orientamento sessuale. Questo dimostra che le influenze ideologiche esterne non sono determinanti, eppure la nostra attuale cultura tende a eludere la realtà dei fatti per concentrarsi su falsità e narrative distorte.Io credo che la vera ideologia sia l’eteronormatività travestita da innocenza infantile.Quel meccanismo per cui tutto ciò che non rientra nel copione del principe e della principessa viene dichiarato nocivo.Come se la purezza dei bambini consistesse nell’ignorare la complessità dell’amore.Ma i bambini sanno.Sanno riconoscere la dolcezza, la paura, il sentimento, anche se non hanno ancora le parole per dirlo.È il mondo adulto che censura, non per proteggerli, ma per proteggere se stesso dalla verità:che l’amore non ha sinonimi.E allora sì, anche nei cartoni animati la rimozione è una forma di violenza silenziosa.Non ci uccide, ma ci cancella.Ci lascia vivi, ma senza specchio.L’infanzia, quella vera, dovrebbe essere il luogo del possibile.E invece, per molti di noi, è stata solo la prima lezione di invisibilità. L’amore rimosso non è solo assenza di rappresentazione: è memoria interrotta.Ogni bacio censurato, ogni relazione taciuta, è una ferita nel modo in cui impariamo ad amare.Eppure, da quelle assenze nasce la nostra voce.Noi, i rimossi, i dimenticati, gli invisibili dei cartoni, abbiamo imparato a leggere anche nel silenzio: a trovare negli sguardi, nei gesti sospesi, nelle ombre dei personaggi, un frammento di verità.Forse la nostra infanzia è stata rubata, ma la nostra lettura del mondo — proprio perché ferita — è diventata più profonda.E in fondo, ogni volta che un bambino oggi guarda due personaggi dello stesso sesso amarsi, senza che nessuno glielo proibisca, un piccolo pezzo di quella storia rimossa si ricompone.Un gesto minuscolo, ma rivoluzionario.Perché l’amore, quando smette di nascondersi, torna finalmente a essere ciò che è sempre stato: umano.©️ Cristian A. Porcino Ferrara
venerdì 10 ottobre 2025
L’amore rimosso – Parte II. La letteratura eteronormativa e le sue omissioni
C’è qualcosa di profondamente allarmante nel modo in cui la scuola continua a raccontarci la letteratura.Ogni autore sembra avere la sua “bella morosa” cui dedicare versi e tormenti, come se la sensibilità poetica potesse nascere solo dall’amore per una donna. La norma si traveste da tradizione e la tradizione da verità. Ma se sei maschio e i tuoi sentimenti o desideri non seguono la direzione prevista, sembri fuori dal racconto — e dunque fuori dal mondo.Nei manuali tutto scorre liscio, rassicurante, come se la storia delle lettere fosse un lungo elogio dell’eterosessualità. Si studiano i poeti innamorati di figure femminili idealizzate, mentre i legami che non rientrano in quella narrazione vengono archiviati nel silenzio. Così accade per Leopardi: si parla della sua delusione per Fanny Targioni Tozzetti, ma non del rapporto profondo e autentico con Antonio Ranieri.La scuola trasmette la metà di una verità e la spaccia per intera.E non è solo Leopardi. Nei manuali, l’unico autore italiano dichiaratamente omosessuale sembra essere Pasolini, come se il suo coraggio avesse esaurito da solo l’intera questione. Ma la realtà letteraria è molto più complessa e ricca. Umberto Saba, per esempio, affida al romanzo postumo Ernesto la confessione di un desiderio che per tutta la vita ha dovuto tacere: il rapporto tra il giovane protagonista e un uomo più grande diventa un momento di rivelazione e di conflitto, tenero e doloroso insieme.Anche Giorgio Bassani, ne Gli occhiali d’oro, racconta con grande finezza la solitudine di un medico omosessuale nella Ferrara fascista, emblema di un’umanità esclusa e perseguitata.E poi c’è Aldo Busi, autore di un capolavoro assoluto come Seminario sulla gioventù: un romanzo di formazione audace, ironico, scritto divinamente, che affronta il tema dell’identità e dell’accettazione di sé con una lucidità che la scuola continua a ignorare. Eppure un testo come questo, se proposto agli studenti, aiuterebbe a comprendere che la letteratura non serve a confermare le norme, ma a metterle in discussione.Sono storie e voci che la scuola raramente nomina, come se non fossero parte della nostra identità culturale. E invece lo sono, eccome: fanno parte di quella verità intera che abbiamo smesso di raccontare.Questo silenzio non è casuale: è una strategia culturale. È il modo con cui si stabilisce che solo un certo tipo di amore è degno di parola, di memoria, di storia. Tutto il resto — i corpi, i desideri, le differenze — viene espulso come un errore. La letteratura diventa così un meccanismo di esclusione, non di conoscenza.Michela Murgia, in un’intervista che non smetto di citare, ricordava che chi non vive la discriminazione spesso non ne comprende la necessità di superarla. Chi detiene il privilegio si convince che il mondo che vede sia l’unico possibile, e quando gli si mostra la marginalizzazione altrui, risponde che “si esagera”. Ma negare l’esperienza dell’altro è il modo più efficace per continuare a esercitare quel privilegio.Nel mio libro Sulle tracce dell’altrove ho cercato di raccontare proprio questo: il disagio silenzioso di chi cresce tra i banchi di scuola senza mai trovare una storia che gli assomigli.Quando la realtà omosessuale viene ignorata, non è solo una dimenticanza: è un messaggio implicito. È come dire “tu non esisti”, oppure peggio, “non devi esistere”. E allora l’aula, che dovrebbe essere un luogo di conoscenza e di libertà, diventa un laboratorio di conformismo.Forse dovremmo domandarci non solo quali storie scegliamo di raccontare, ma perché continuiamo a raccontarne sempre le stesse.L’amore — ogni forma d’amore — è materia universale, eppure la sua rappresentazione resta sorvegliata, normalizzata, selettiva.E mentre si discute di educazione affettiva e di parità di genere nelle scuole, nessuno mette in discussione i manuali che perpetuano un’unica idea di desiderio.Il punto non è “aggiungere autori gay” come si aggiunge una nota a piè di pagina. Il punto è riscrivere la narrazione stessa, liberarla dai filtri morali che ancora oggi la ingabbiano.Riconoscere l’amore omosessuale non è una concessione né un atto politico: è restituire alla letteratura la sua interezza, la sua verità.Perché la scuola non dovrebbe operare censure e discriminazioni, ma il diritto — e il coraggio — di amare.©️ Cristian A. Porcino Ferrara
sabato 4 ottobre 2025
Condivisione, non competizione
Mentre passeggiavo a Marzamemi mi ha profondamente colpito una scritta che diceva: «Non mi piace la competizione, preferisco la condivisione». In quanto insegnante, non ho mai sopportato l’idea della competizione così radicata nei nostri sistemi scolastici.Ogni allievo è unico e merita di essere accompagnato nella scoperta dei propri talenti, senza la spada di Damocle che incombe sulle loro teste a causa di una competizione spesso inutile e deleteria. Alexander Neill, fondatore della scuola di Summerhill, ci ricorda che «l’istruzione deve adattarsi al ragazzo, non il ragazzo all’istruzione». In questo senso, la libertà di crescere rispettando i propri tempi e inclinazioni è molto più preziosa di qualsiasi confronto basato sul rendimento.Anche Daniel Goleman sottolinea l’importanza di un approccio che vada oltre il quoziente intellettivo, valorizzando le competenze emotive e relazionali. Come sostiene nei suoi studi sull’intelligenza emotiva, «non è il più intelligente a raggiungere i risultati migliori, ma chi sa gestire le proprie emozioni e relazioni». La condivisione, l’empatia e la cooperazione diventano allora strumenti fondamentali per la crescita personale e collettiva.Ecco perché credo che la scuola debba orientarsi non a creare competitori, ma persone consapevoli, capaci di collaborare e di esprimere al meglio la propria unicità. E in questo percorso il nostro ruolo di insegnanti è decisivo: non siamo semplici trasmettitori di nozioni, ma facilitatori di crescita, guide che accompagnano con rispetto e passione ogni allievo nel suo cammino, perché ognuno possa sentirsi valorizzato per ciò che è e non per quanto riesca a superare gli altri. In fondo, insegnare significa divertirsi nel trasmettere il sapere, senza ridurlo a un elenco di nozioni seriose. Lo ricorda bene Alessandro Barbero: «Quando racconto ritorno un bambino che giocava con i soldatini». Ed è proprio questa dimensione ludica che la scuola dovrebbe recuperare, se vuole davvero essere uno spazio di condivisione e non di competizione.©️ Cristian A. Porcino Ferrara
giovedì 2 ottobre 2025
Spalle al muro: il peso nascosto della demenza
La demenza senile è una malattia che non isola mai una sola persona: è una frattura silenziosa che attraversa le famiglie, un lento dissolversi che porta via chi si ammala e chi lo accompagna. Colpisce la memoria, i pensieri, l’identità stessa: noi siamo i nostri ricordi, e quando vacillano diventiamo lenti frammenti di noi stessi, fino a sembrare corpi presenti ma anime assenti.Ho conosciuto questa realtà nel dolore di vedere mio padre scomparire giorno dopo giorno, divorato dalla malattia, fino a scoprirmi non più soltanto figlio, ma padre di mio padre. La sua fragilità ha cambiato il volto della mia vita, insegnandomi che si cresce anche così: quando il tempo non si misura più solo nei propri giorni, ma nell’intensità con cui si vive accanto a chi ti ha messo al mondo.Eppure, troppo spesso, la società e le istituzioni trattano tutto questo con superficialità. Nei pronto soccorso i sintomi vengono minimizzati, l’ascolto è distratto, e la storia di un essere umano si riduce a una diagnosi. Renato Zero, in Spalle al muro, canta: “Vecchio, diranno che sei vecchio, con tutta quella forza che c’è in te. Vecchio, sìcon quello che hai da direMa vali quattro lire, dovresti già moriretempo non c'è ne piùNon te ne danno più...".Parole che descrivono bene lo stigma che accompagna chi invecchia: come se la malattia potesse cancellare dignità e vita.La psicologa Dawn Brooker ci ricorda che la cura deve essere centrata sulla persona, non solo sulla diagnosi. Dietro ogni sguardo smarrito resta sempre una storia che chiede rispetto. Anche Teepa Snow ci invita a cambiare prospettiva: la persona con demenza non ci “dà un problema”, ma “vive un problema”.Il dolore di chi assiste è silenzioso ma profondo: stress, isolamento, rinunce lavorative, logoramento interiore. Spesso si sacrifica tempo, opportunità, etc. Dietro ogni malato c’è un essere umano da custodire, e dietro ogni persona che si prende cura di un familiare affetto da demenza c’è un cuore che resiste, pur con le spalle al muro.Forse il compito più grande che abbiamo come società è non dimenticarlo. La dignità non deve mai essere un lusso, ma un diritto che dura fino all’ultimo respiro.©️ Cristian A. Porcino Ferrara
Iscriviti a:
Commenti (Atom)